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sei in: DIDATTICA>COLLOQUIO CON UN COMPOSITORE CHE INSEGNA AI PIANISTI

Colloquio con un compositore che insegna agli strumentisti

SOMMARIO. Composizione complementare? - la domanda sociale e le finalità dell’insegnamento - se e come i corsi di pianoforte e di composizione vi corrispondono – il ruolo del patrimonio storico nella formazione – il peso delle tradizioni compositive locali – i generi della musica e l'improvvisazione– obiettivi e sbocchi di Composizione secondo il DM sugli ordinamenti – la canzone del ‘900 – il ruolo delle Tecniche compositive nella formazione dello strumentista – “obblighi” o non “obblighi”? – l’educazione musicale dello strumentista

Premessa. Docente di Armonia e Contrappunto nel Conservatorio di Milano, Massimo Bertola ha scelto da vari anni di dedicare una parte del suo impegno didattico, anzichè a studenti di Composizione, a studenti di Pianoforte e di altri strumenti che hanno, nel loro curriculum del triennio, l'obbligo della disciplina "Tecniche compositive", e nel biennio di II livello, l'obbligo di "Tecniche di composizione e improvvisazione musicale”.
Una scelta del genere, da parte di un docente di Composizione, suggerisce significati che vanno al di là degli aspetti organizzativi. Gli abbiamo proposto una chiacchierata per approfondire le implicazioni didattiche e culturali di questa sua attività.

S. Lattes. Massimo, comincio con una domanda scabrosa. Non ti senti in qualche modo sminuito a insegnare a studenti non-compositori? Non si tratta di una sorta di Composizione complementare?

M. Bertola. D'accordo, vedo che vai subito al dunque, ma io cercherò di non mettermi nei guai. No, non mi sento sminuito (anche se la tua domanda lo dava già in qualche modo per scontato): perchè dovrei? Non è certo il tipo di allievo o la natura della materia d'insegnamento a sminuire il lavoro di un docente. Tutt'al più, è l'attenzione che la società per la quale t'impegni dà al tuo lavoro che può farti sentire sminuito. La società, intendo dire, che ti ha impiegato e quella alla quale ti rivolgi. Ma non il lavoro in sè. C'è uno studente, un docente. Ci sono delle cose da insegnare, l'allievo le sa o non le sa. C'è una tensione, tutto qui, e questa tensione dà la misura del senso del lavoro.

S.L. Il tuo richiamo alla società "che ci impiega" solleva questioni, come si suol dire, di fondo. La sperimentazione della 508 ha spinto i Conservatori a misurarsi con domande sulle proprie finalità, sulla propria funzione nel mondo contemporaneo. A Milano, per fare un esempio vicino a noi, nella progettazione del triennio e del biennio di Pianoforte l'indirizzo a carattere virtuosistico è stato reso molto più impegnativo negli standard, più attuale nel repertorio, ed estremamente selettivo nell'accesso. E, insieme, si è cercato di valorizzare l'indirizzo di maestro collaboratore, che è il solo a produrre una figura professionale ben definita, visto che il nostro paese ha ancora molti teatri (ed è uno sbocco che la maggior parte degli studenti in entrata non prende in considerazione, e spesso neppure conosce). Molto c'è ancora da fare, sia nell'indirizzare le aspirazioni e le motivazioni degli studenti, sia nell'adeguare di conseguenza contenuti, metodi e stili dell'insegnamento. E, aggiungerei, mentalità degli insegnanti.

Sarebbe anche interessante, a confronto, sapere come si è posta questa questione nel corso di Composizione, che condivide con quello di Pianoforte il primato nel numero di studenti, le più larghe valenze formative e al contempo un orientamento professionale meno definito. Si pensa di rispondere, e come si pensa di farlo, alla domanda di competenze compositive che viene dall'industria culturale, dal mondo della radio e della TV, dal cinema, dalla pubblicità, dalla stessa musica non-colta, o non-classica? Intendo competenze non "pure", non "artistiche", che non coincidono con l'archetipo del compositore-per-la-sala-da-concerto. Ci sono, in proposito, diverse scuole di pensiero?

M.B. Ci sono senz'altro. Quando inziammo a incontrarci per mettere a punto i contenuti di triennio e biennio, il primo ostacolo che ci trovammo di fronte fu la domanda: “Cosa sarà il triennio di Composizione?”. Questo perchè la legge non lo diceva con chiarezza e così si formarono due gruppi d'opinione, “il triennio equivale al vecchio corso medio” e “il triennio equivale al vecchio corso superiore”. Ciò portò alla luce che alcuni docenti di Composizione avevano così poca fiducia, così poco interesse nei nuovi ordinamenti da evitare di prendere parte ai lavori, convinti che tutto si sarebbe lentamente arenato in quella dimensione di perenne temporaneità che in Italia tanto spesso diventa il cimitero dei progetti di riforma.

Il lavoro dei rimasti mise in luce una domanda chiave: “Cosa deve saper fare uno studente all'ingresso del triennio”. Questo poichè la legge avrebbe consentito a chiunque, in possesso di diploma di maturità e di diciotto anni d'età, di chiedere l'ammissione al triennio di Composizione senza avere necessariamente frequentato i sette anni dei corsi inferiore e medio e delegando al sistema dei debiti e dei corsi in parallelo, com'è negli studi di tipo universitario, di colmare la prevedibile mancanza di preparazione tecnica.

Ben presto, però - cerco di venire al dunque - la domanda veramente chiave (come fece notare un giorno, durante i lavori, Lorenzo Ferrero) divenne: “Cosa deve saper fare uno studente all'uscita del corso di Composizione?

Questa domanda avrebbe potuto, da sola, mettere in discussione - in crisi, direi, ma è la mia opinione personale - l'intero sistema dell'insegnamento della Composizione così come viene praticato, nelle sue linee molto generali, comuni a tutti i Conservatori italiani, da decenni.
Però non lo fece.

S.L. Come mai?

M.B. Cercando di essere sintetico, direi che le risposte possibili sono tre. Prima, la proverbiale vecchiezza dei programmi di studio e d'esame di Composizione, che addossa a studenti e docenti un bagaglio di tecniche storiche tale da impegnare larga parte del tempo di lavoro, per anni. Questo è solo in parte corretto dal programma di Composizione Sperimentale, che toglie spazio alla pratica dei linguaggi “ibridi” (il basso con imitazioni, il doppio coro alla francese) per darne alla scrittura personale, sin dall'inizio.

In secondo luogo, richiamerei il peso della tradizione didattica e compositiva del Conservatorio di Milano, nel quale insegnano allievi di alcuni degli ultimi, e più importanti, compositori militanti del secondo Novecento - quello di Darmstadt, della post-dodecafonia, dello strutturalismo (non mi riferisco ad alcuna appartenenza politica ma all'essere compositori nell'oggi e nel mondo), il che costituisce una scuola, i cui esponenti sentono la necessità personale e culturale di assicurarne la continuità.

E infine una certa generale sfiducia, da parte di quasi tutti i compositori/docenti, nella capacità dei linguaggi recenti, e non accademici, di essere al contempo formativi e culturalmente rilevanti.

Eppure, i segni che la società - alla quale bisogna pur rispondere, ogni tanto, perfino quando esprime tendenze e opinioni che non condividiamo - avanza richieste, non mancano. Pochi anni fa, venne da noi per una master class Ennio Morricone. In una sala Puccini molto piena parlò, spiegò, illustrò certi suoi procedimenti compositivi. Era evidente che tali procedimenti, benché in parte in grado di essere illustrati, razionalizzati, erano un suo bagaglio pratico e personale che egli non era abituato a usare come materiale didattico, ed era evidente che la grande ricchezza delle sue risorse inventive non aveva molto a che fare con un ambito accademico. Eppure, al di là dei suoi temi più celebri, molte idee strumentali e strutturali delle colonne sonore degli anni settanta meriterebbero - eccome! - di venire studiate da chi aspirasse a percorrere quel tipo di strada.
Alla fine, una signora prese la parola e, ringraziandolo per la sua musica, gli disse che lo riteneva il più grande compositore del Novecento.

La cosa è interessante per più ragioni. Primo, fino a non molti anni fa una cosa del genere sarebbe stata pensata, ma forse non detta pubblicamente, e nella sala di un Conservatorio: il messaggio, esposto con una certa enfasi emotiva e molta intenzionalità, non era destinato solo all'interlocutore immediato, ma all'ambiente culturale e accademico in generale. Secondo, la reazione di Ennio Morricone, il quale si schermì, ma non troppo. E se un uomo così palesemente capace e intelligente era pronto a condividere un simile giudizio - che faceva giustizia, in un colpo solo, di due mezzi secoli di musica, il primo dei quali, almeno fino a pochi anni fa, al sicuro da processi sommari - il sostegno della società a una riscrittura dei criteri e dei valori culturali deve essere già molto forte, nella nostra quasi ignoranza. E con nostra intendo quella dei compositori di scuola.

S.L. Hai toccato due questioni capitali. La prima è quella della funzione del patrimonio nella formazione: da sola varrebbe un altro di questi colloqui. E’ una questione che non riguarda solo la musica, naturalmente: basta citare il vasto dibattito sul valore “formativo” della cultura classica, a cominciare dal latino. Qui tu parli di “un bagaglio di tecniche storiche tale da impegnare per anni larga parte del tempo di lavoro”, contrapponendolo allo “spazio alla scrittura personale, sin dall’inizio”. Qualcuno un po’ all’antica potrebbe chiedersi su quali basi tecniche si fondi una scrittura personale. Ma ripeto è cosa troppo vasta per affrontarla qui.

La seconda questione capitale che hai toccato, citando il caso di Morricone, è quella dei generi della musica, e di come la formazione accademica debba atteggiarsi rispetto alla loro molteplicità. Non è una faccenda che riguarda solo i compositori: anche il pianoforte (e le tastiere in genere), anche la chitarra, anche il contrabbasso, anche la tromba il trombone il sax la percussione e non so quanti altri sono coinvolti in tradizioni e prassi esecutive non-classiche.

In particolare, per la Composizione, è interessante leggere alcuni passi dell'enunciazione di obiettivi e sbocchi professionali, come compare nel testo - fresco d'inchiostro - del nuovo decreto ministeriale sugli ordinamenti (DM 124/09>>), che mette a regime la riforma dei Conservatori per il I livello.

Gli sbocchi professionali previsti per Composizione sono nel decreto così descritti:

Prospettive occupazionali       
Il corso offre allo studente possibilità di impiego nei seguenti ambiti:

- Composizione musicale
- Trascrizione musicale
- Arrangiamento musicale

E negli obiettivi formativi si legge, fra l'altro:

Al termine degli studi, con riferimento alla specificità del corso, lo studente dovrà possedere adeguate competenze riferite all’ambito dell’improvvisazione.

e, sempre negli obiettivi:

sarà dato particolare rilievo allo studio delle principali tecniche e dei linguaggi compositivi più rappresentativi di epoche storiche differenti. Specifiche competenze devono essere acquisite nell’ambito della strumentazione, dell’orchestrazione, della trascrizione e dell’arrangiamento. Tali obiettivi dovranno essere raggiunti anche favorendo lo sviluppo della capacità percettiva dell’udito e di memorizzazione [...]

Sia pure nell'ambito di una codifica assai generale, è indicata chiaramente la molteplicità di funzioni "sociali" del compositore, o meglio potremmo dire del "tecnico della composizione musicale". Si insiste sul termine arrangiamento (che è tipico della musica non-classica); sono messi fianco a fianco la composizione (che potrebbe essere pratica "alta") e la trascrizione e l'arrangiamento, che certamente sono meno "creativi" e più compromessi con il versante commerciale.
Ma, anche, ci si riferisce esplicitamente alle "principali tecniche e [ai] linguaggi compositivi più rappresentativi di epoche storiche differenti", che forse sono anche quelli del presente, e magari non solo quelli della sala da concerto......

Inoltre, c’è un riferimento alle "capacità percettive dell'udito e di memorizzazione", che se non sbaglio hanno molto a che vedere con un’idea di composizione contigua alla pratica esecutiva, e meno hanno da spartire con un’idea di composizione assorta esclusivamente nella dimensione “pura” della scrittura.

E' difficile, dunque, escludere dalla sfera d'interesse dell'insegnamento - così delineata - la canzone moderna, tanto per fare un esempio. O mi sbaglio?

M.B. Quando Stravinskij visitò l'America, dove non era mai stato, raccontò di essere rimasto stupefatto dall'avere incontrato musicisti che venivano definiti “arrangiatori” e le cui competenze musicali, disse, superavano di gran lunga ciò che ci si sarebbe aspettati da una simile qualifica. Questo era dovuto al fatto, probabilmente, che in America era vivo un repertorio (oggi si direbbe un mercato) di canzoni d'autore accompagnate dall'orchestra, sia come parte dei musical sia sciolte, a loro volta repertorio di cantanti che tenevano serate.

E' ovvio che ora il passo successivo sarà definire i termini, cantante e canzone: stiamo parlando di Schubert o Wolf, di Prey o Fischer-Dieskau? No, di Sinatra e Gordon Jenkins, di Tony Bennett e Nelson Riddle. Ma la questione di fondo non cambia. Questa contaminazione apparente fra generi - la canzone leggera, l'orchestra di origine sinfonica - era resa non solo possibile ma necessaria da un fatto elementare, ingombrante come la pietra: la qualità delle canzoni. Quando si ascoltano certi standard nelle registrazioni dei grandi cantanti, la qualità dell'arrangiamento salta alle orecchie all'istante, sempre che non si sia sordi o disinteressati alla questione; e mentre è evidente che i suoni, le armonie, gli impasti timbrici sono spesso di derivazione storica, è anche evidente che il genere in sè, che essi costituirono un poco alla volta, a centinaia com'erano, ha finito per diventare una scuola, che ha un suo pubblico, suoi esecutori (oggi è attivo un certo numero di cantanti giovani che riprende il repertorio dei crooner) e un suo proprio linguaggio armonico e strumentale, che può essere insegnato. Ma può essere insegnato dove ne sia vivo il repertorio (o, come si direbbe oggi, il mercato).

Non era che un esempio, ma adatto a far riflettere. Quando si è cresciuti musicalmente in un'estetica nella quale l'orchestra sinfonica è corpo del più alto, complesso e impegnativo pensiero musicale degli ultimi tre secoli diventa difficile, obiettivamente, accettare che essa si possa impiegare anche per un breve racconto che in soli tre minuti parlerà di ciò di cui parla, da un millennio, il novantacinque per cento delle canzoni di ogni epoca e luogo: la tristezza per l'amore perduto o per la brevità dell'esistenza. Perciò, per rispondere al tuo ultimo commento, potrei dire – ed è opinione del tutto personale - che sì, dovrebbe essere difficile escludere la canzone moderna dall'insegnamento, ma in realtà è ciò che succede, e non è strano.

Il problema non è nella canzone, ma nei Conservatori. In Italia la canzone si insegna, ci sono scuole per qualsiasi cosa e qualsiasi genere, dallo stencil alla chitarra heavy metal; sono le sedi storiche a non dare risposte. O a non darne abbastanza.

S.L. Bene, vorrei però tornare al nostro punto di partenza: un compositore che insegna ai pianisti. A parte le implicazioni di status accademico, di cui abbiamo parlato all'inizio, vengo al punto: perchè dobbiamo insegnare le "tecniche compositive" agli strumentisti? In che cosa consistono? Che bisogno ne hanno? A quale figura di strumentista fanno implicitamente riferimento?

M.B. Dunque, alla prima domanda: quando è stata avviata la sperimentazione i Direttori d'istituto più energici e lungimiranti si sono affrettati a mobilitare i loro docenti perchè approntassero bozze di programmi. Il Ministero si aspettava che il lavoro di riempimento del contenitore 508 lo facessimo noi, e noi lo abbiamo fatto. Occorreva iniziare e terminare un lavoro difficile ma indispensabile, come quando si devono incontrare a mezza montagna le due metà di tunnel scavate da opposte direzioni: da una parte soddisfare i criteri perchè i nuovi ordinamenti fossero di tipo universitario - corsi in parallelo, crediti, studi interdisciplinari - e, dall'altra, approfittarne per attuare finalmente quella riforma dei corsi di studio che, a parole, tutti agognavano da anni per potere svecchiare e arricchire le scuole di strumento, canto, teoria. Spuntò la dicitura Tecniche Compositive. In fondo, nulla di strano: per anni qualsiasi studente di Conservatorio, con la logica eccezione di quelli di Composizione, ha avuto nel suo corso di studi Armonia Complementare; si è sempre presunto che qualsiasi musicista dovesse avere un minimo di competenza armonistica, una qualche capacità di scrittura. Tecniche Compositive risponde al bisogno di sapere, oltre che di saper fare, a livello dell’alta formazione dello strumentista.

Due: Tecniche compositive consiste, di regola, in ciò che il dipartimento di strumento interessato chiede a quello di Composizione o, al contrario, in ciò che i compositori dovrebbero proporre agli strumentisti. La spiegazione del condizionale è nei primi punti della nostra conversazione. A titolo di esempio, il corso di Tecniche Compositive che tengo da qualche anno per i pianisti del triennio ha come scopo metterli in condizione di scriversi una cadenza per un Concerto dell'età classica - Mozart, il primo Beethoven; così mi fu chiesto dal dipartimento di Pianoforte, e così facciamo.

Quello che tengo per i pianisti del biennio, invece, è una mia proposta al dipartimento di Pianoforte e ha come oggetto proprio ciò di cui parlavamo: l'armonia di tipo jazzistico degli standard, la sua derivazione da quella storica - la sua, in una (brutta) parola, insegnabilità. Ed è abbastanza straordinario vedere dei ragazzi di poco più di vent'anni che, nel 2009, in un mondo musicale dominato negli ultimi cinquant'anni dal disco, toccano per la prima volta una canzone d'arte moderna e la sua specificità, la sua unicità come se fossero oggetti alieni e incandescenti, senza letteralmente sapere dove mettere le dita, come organizzare un suono, un collegamento nuovo. Il corso ha nella propria denominazione anche la parola improvvisazione; e tuttavia finora nessuno è riuscito a svolgere l'esame senza un foglio sul leggio, senza una guida scritta: retaggio di un millennio di cultura musicale prima aiutata, poi condizionata e infine dominata dalla dittatura del testo.

Che bisogno ne hanno? Scusa, ma devo rispondere infinito e nessuno. Infinito perchè la separazione fra compositore ed esecutore è, come sappiamo bene, cosa degli ultimi cento anni o poco più e di una parte della sola tradizione alta. Nessuno perchè purtroppo considerare, come è giusto, questi corsi necessari li fa rendere obbligatori e gli studenti, da sempre, attivano un software mentale in presenza del termine obbligatorio che fa sì che il contenuto del corso si autodistrugga all'istante poche ore dopo avere dato l'esame. Burn after reading.

Aggiro l'ultima domanda: credo che corsi di questo genere possano fare riferimento implicito a un certo tipo di strumentista - che ne so, l'uomo-in-frac-nella-sala-da-concerto - ma non c'è dubbio che potrebbero servire a chiunque.

S.L. Aggiungo per parte mia qualche considerazione. Parto dall’ultima tua risposta per ricordare com’è nato il triennio di Pianoforte a Milano. Lo sforzo che ha animato il progetto è stato proprio quello di sradicare, o almeno di relativizzare il riferimento esclusivo al modello dell’uomo-in-frac-nella-sala-da-concerto, mettendo in luce (agli occhi degli stessi studenti) le altre valenze formative e professionali del pianoforte. Ne parlavo all’inizio.

Ho qualche dubbio sull’idea che quello che è obbligatorio debba necessariamente essere odiato/rimosso/cancellato.  Mi sembra che l’istituzione formativa – cioè noi docenti – debba assumersi la responsabilità di indicare al discente ciò che non può essere oggetto di negoziato. Non terremmo fede al nostro impegno di formatori, e anche semplicemente di adulti, se la scuola diventasse un supermercato del fai-da-te. Naturalmente, sono anch’io un po’ all’antica.

Tornando alle Tecniche compositive, ricordo che la denominazione fu voluta dal direttore di allora per uniformità con gli altri trienni. Noi avremmo optato per Armonia per pianisti, che è comune in altri paesi e fa capire meglio. Sulle ragioni di questa disciplina, oltre a quanto hai detto, ricordo che molti studenti di Pianoforte e di altri strumenti da sempre si iscrivono a Composizione non perché avvertano un’urgenza creativa, ma semplicemente perché vogliono sapere come è fatta la musica che suonano. Di qui le Tecniche compositive, o come le si voglia chiamare, di qui l’analisi e molte delle discipline che formano il Triennio.

Su questo argomento vorrei anche richiamare le considerazioni svolte da Giovanni Grosskopf su questo stesso sito (Dialogo fra un vecchio professore ecc.), che muovono intorno alla stessa questione cruciale: quale debba essere l’educazione musicale di uno strumentista.

Per concludere, caro Massimo, mi sembra che in un solo colloquio abbiamo toccato e smosso parecchi temi. Fra gli altri, e te ne sono grato, quello dei generi della musica, e quello dell’improvvisazione. Mi resta il convincimento che l’incontro delle competenze compositive e di quelle strumentali, e in particolar modo quelle pianistiche, porta in evidenza nodi che riguardano il futuro dei nostri istituti. Si tratta cioè – per gli uni e per gli altri, compositori e strumentisti – di mettere in discussione le finalità dell’insegnamento e quindi perché “la società”, come hai detto, ci paga. Pena la nostra marginalizzazione definitiva.

Difficilmente potremo farlo, aggiungo, senza mettere in campo le collaborazioni con l’Università, tema di cui in questo colloquio non abbiamo parlato e che potrebbe essere oggetto di un prossimo. Ma è certo che se in un momento irripetibile qual’è la riforma non avessimo il coraggio di metterci in discussione, avremmo perso un’occasione preziosa non solo per noi ma sopratutto per coloro cui passeremo, prima o poi, il testimone.
Ti ringrazio.


(ottobre 2009)

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