I corsi pre-accademici
6 domande a Anna Bellagamba
con un'aggiunta di Filippo Faes
Nella
prospettiva che i Conservatori continuino per un lungo periodo a offrire la
formazione musicale fin dall’inizio degli studi, quali aspetti dell’ordinamento
del 1930 (fin dall’inizio degli studi musicali) ti sembrano richiedere
innovazioni, e quali viceversa ritieni siano da preservare?
Da preservare:
- possibilità di iniziare gli studi musicali in età precoce
- individualizzazione del percorso formativo: prevalenza di lezioni individuali,
flessibilità dei programmi di studio di strumento (esami di compimento esclusi),
cosa che rende possibile al docente costruire un percorso formativo tagliato su
misura per lo studente, tenendo conto della sua età e del differente stadio di
maturazione delle sue caratteristiche fisiche, psichiche e intellettive
- percorso formativo che privilegia nei primi anni l’apprendimento della musica
in modo globale, attraverso la pratica strumentale, rinviando agli anni
successivi l’apprendimento specialistico delle singole discipline musicali
(storia della musica, armonia e analisi). Nei casi di migliore pratica didattica
lo studente non giungeva allo studio formale della storia della musica o
dell’armonia completamente digiuno di tutto, ma con una serie di competenze e
informazioni raggiunte attraverso la pratica strumentale e l’ascolto, che lo
studio formalizzato delle discipline aiutava a sistematizzare e completare
- presenza nel programma di studio dello strumento di alcuni capisaldi
ineliminabili (come ad esempio lo studio del Clavicembalo ben temperato nel
percorso formativo dei pianisti) che agiscono nei casi migliori da stimolo e da
catalizzatore delle energie e delle competenze acquisite, in altri casi invece
sono un mezzo di verifica per lo studente stesso delle proprie motivazioni e
delle proprie capacità in merito allo studio della musica, cosa ugualmente
utile.
- rinvio di ogni possibile specializzazione ad uno stadio successivo degli studi
(giudico ad esempio negativa la possibilità offerta dai nuovi ordinamenti di
scegliere già al triennio il percorso specialistico di “pianista collaboratore”,
un pianista collaboratore è, deve essere, prima di tutto un pianista in grado di
eseguire il repertorio solistico e cameristico, in più deve avere
competenze specifiche relative alla direzione, al canto, alla conoscenza del
repertorio e della pratica teatrale, tutto ciò deve trovare posto in un percorso
di specializzazione che può iniziare solo dopo che si è concluso il normale
percorso di studio comune a tutti i pianisti)
da innovare:
- ampliare e anticipare la pratica della musica d’insieme in tutte le sue forme
(canto corale, musica d’insieme, orchestra giovanile, pratica della
collaborazione pianistica) fin dai primi anni di studio, su repertori adatti e
con docenti specializzati
- collegare in modo stretto la didattica e la produzione artistica, valorizzando
in modo particolare i progetti collettivi che coinvolgono molti studenti:
partecipare ad un progetto artistico è un’esperienza di valore insostituibile e
non può non essere prevista nel percorso di studio di ogni studente
- rinnovare contenuti e metodi del corso di Teoria e solfeggio, trasformandolo
in un insegnamento attivo, pratico, con contenuti tratti il più possibile dal
repertorio, e sufficientemente flessibile da poter essere adattato a studenti di
età diverse, in alcuni casi anche a studenti molto giovani
- rendere possibile e generalizzare la pratica dello studio di un secondo
strumento fin dai primi anni di studio: studiare due strumenti appartenenti a
famiglie diverse consente ai ragazzi di ampliare le proprie capacità musicali
(in molti casi di risolvere attraverso il secondo strumento difficoltà musicali
che sembravano irraggiungibili con il proprio) e contemporaneamente consente
loro alcuni anni di tempo per orientarsi nella scelta dello strumento preferito
- inserire in tutti i percorsi formativi strumentali lo studio degli elementi di
base del canto, è essenziale per un musicista conoscere, saper usare, ed aver
cura della propria voce.
- rendere ancora più flessibile l’organizzazione del percorso di studi,
consentendo di anticipare o posticipare la frequenza dei corsi complementari in
funzione della propria maturazione musicale complessiva
- ampliare i programmi di studio, mirando ad una formazione musicale il più
possibile completa anche per quanto riguarda il repertorio, Novecento compreso.
Come valuti la possibilità che la formazione ante-triennio venga progettata
in autonomia dalle singole istituzioni, senza un modello centrale?
Secondo me è estremamente positiva l’autonomia concessa in questo campo.
Anzitutto consente ai singoli conservatori di elaborare modelli tra loro
alternativi, a tutto vantaggio della scelta degli utenti, specialmente nelle
regioni dove sono presenti varie istituzioni. Ogni conservatorio può e deve,
secondo me, elaborare il proprio modello a partire dalle proprie risorse umane,
con l’obiettivo di creare nel tempo un corpo docente che condivida gli stessi
principi e le stesse idee di base, pur nel rispetto della libertà d’insegnamento
del singolo.
Sono infatti i docenti che creano la scuola, e se questo vale probabilmente per
la scuola in generale, a maggior ragione è valido in particolare per la scuola
di musica. L’elaborazione di un piano di studi, di una serie di regolamenti e
norme, è, secondo me, qualcosa che deve seguire, e non precedere, la scelta di
un modello di scuola, di insegnamento, basato su opinioni condivise dalla
maggior parte dei docenti che lavorano nella scuola stessa. Se si obbligano i
docenti a lavorare all’interno di un modello che contraddice le proprie
convinzioni su quale sia il modo migliore di trasmettere ai ragazzi la musica,
si otterrà solo una scuola in cui i docenti e gli studenti si sentono
oppressi dagli obblighi formali che la scuola impone loro.
E’ invece necessario un modello centrale, secondo me, nella definizione delle
competenze minime attese al termine degli studi, competenze che devono
evidentemente essere uguali per tutti.
Il punto cruciale in questo senso non è tanto nella definizione di queste
competenze, quanto nella definizione di un metro comune di valutazione delle
competenze stesse. L’argomento della valutazione in campo musicale sarebbe
secondo me un argomento da affrontare prima o poi con serietà nei nostri
Conservatori. E’ singolare infatti che tutti i docenti ritengano di essere in
grado di valutare un’esecuzione, e molto spesso si trovino d’accordo sulla
valutazione da assegnare ad un esame senza nemmeno discuterne, poi non siano
spesso in grado di spiegare perché. L’assenza di un linguaggio specifico, di un
metalinguaggio che sia in grado di tradurre sensazioni musicali in linguaggio
specifico (che non sia a sua volta linguaggio poetico, metaforico, come spesso
accade), è ciò che rende impossibile una valutazione “oggettiva”, basata su
parametri confrontabili, misurabili. Troppo spesso si passa dalla sensazione
musicale direttamente al voto, senza nessun tentativo di fondare la valutazione
su parametri oggettivi, pratica che può essere innocua se fatta da docenti e
commissioni in buona fede, ma che spesso consente a chi vuole di manipolare
commissioni d’esame per i propri fini senza nessun tipo di controllo (“il
giudizio della commissione è inappellabile”).
Quindi accanto alla definizione delle competenze minime attese al termine degli
studi, è necessario anche elaborare un modello di valutazione preciso ed
approfondito, se non si vuole nuovamente affondare nell’indeterminatezza. La
funzione di controllo che lo Stato può e deve esercitare sulla valutazione delle
competenze al termine del percorso di studi è secondo me una funzione di
garanzia per il diritto degli studenti ad avere dalla scuola ciò che la scuola
promette di dare.
Quale procedura interna alle singole istituzioni giudichi appropriata per
pervenire a un buon risultato?
E’ necessario dapprima avviare una riflessione sui principi a cui ci si
intende ispirare nell’eleborare il proprio modello di scuola. Questo si può fare
anche semplicemente invitando ogni docente ad elencare le pratiche didattiche
che si ritiene fondamentali. L’elaborazione del piano di studi, dei regolamenti,
di tutto l’apparato normativo, deve avvenire successivamente, e può essere
curato anche da pochissime persone, nel rispetto dei principi condivisi. In
questa fase è opportuno che l’istituzione si confronti con le altre istituzioni
del territorio, e anche secondo me, in una certa misura con tutte le istituzioni
di pari livello in campo nazionale, per raggiungere alcuni accordi sulle
competenze da raggiungere ai vari livelli, in modo da rendere possibile il
transito dello studente da un’istituzione all’altra.
Ritieni opportuno tener conto dell’impianto didattico e disciplinare del
nuovo liceo musicale? E perché?
Secondo me no, per diversi motivi. Anzitutto il Liceo musicale è, deve
essere, un’alternativa al Conservatorio, non un suo duplicato. Il Liceo, per sua
natura, è un modello che accoglie studenti tutti della stessa fascia di età, e
li suddivide in classi appunto per età. Le discipline collettive devono tener
conto di questo fattore, e in una certa misura anche quelle individuali. Il
Liceo è una struttura quindi più rigida, più compatta, meno flessibile, ed è
tagliata su misura per “lo studente medio”.
In Italia l’insegnamento della musica è sempre stato svolto in maggioranza dai
Conservatori (e dall’insegnamento individuale privato che preparava comunque
agli esami di Conservatorio), che sono per loro natura scuole che hanno la
finalità di formare musicisti professionisti, ed hanno programmi studiati a tale
scopo. Manca quasi completamente in Italia la formazione musicale e strumentale
per tutti, con finalità culturali e non professionali. Il Liceo secondo me andrà
probabilmente a sopperire a questa lacuna, consentendo di seguire, all’interno
della scuola pubblica, un percorso culturale in cui la musica ha un posto di
rilevo, ma non preclude il proseguimento degli studi in campi differenti.
Secondo me è giusto e opportuno che questa opportunità ci sia, e non esclude che
il Liceo possa anche preparare futuri professionisti.
Il Conservatorio può mantenere una struttura flessibile,
non legata all’età, che punta sull’insegnamento individualizzato, sulla
differenziazione dei percorsi formativi. Questa è una grande forza che il
Conservatorio ha, e a cui sarebbe a mio parere sbagliato rinunciare.
Anche il Conservatorio può, nella fascia pre-accademica,
costruire percorsi con finalità non professionali, se lo ritiene opportuno. Lo
può fare in alcuni casi anche meglio del Liceo, potendo accogliere studenti di
tutte le età. A differenza del Liceo il Conservatorio può, e sarebbe meglio
secondo me che lo facesse, tenere ben separati i due tipi di percorsi formativi,
privilegiando sempre e comunque il percorso professionale, che costituisce il
nucleo e l’essenza della propria storia istituzionale, e che è doveroso secondo
me mantenere nella scuola pubblica.
Altre
osservazioni sull’argomento?
I due grandi difetti del nuovo ordinamento dei conservatori
(triennio+ biennio) sono, secondo me, il tentativo di rendere tutti uguali
percorsi formativi che non sono tra loro equivalenti, e l’innalzamento dell’età
degli studi, cosa che in campo musicale può essere assai deleteria. Il percorso
pre-accademico può consentire di recuperare a livello locale quanto è stato
distrutto dalla riforma centralizzata.
Il percorso pre-accademico copre la fascia di età dai 5 ai 19 anni, che è,
nell’opinione di tutti, la fascia di età in cui l’apprendimento della musica dà
maggiori risultati. E’ evidente che un conservatorio che produca e sperimenti in
concreto un buon modello di scuola per questa fascia di età sarà una buona
scuola, e potrà anche, nei limiti consentiti dalle normative centralizzate,
trarre il meglio possibile anche dal precorso del nuovo ordinamento (triennio +
biennio). Viceversa una scuola che si affidi all’affluenza al triennio di
studenti provenienti da percorsi differenti (scuole private, Licei,
pre-accademici di altre istituzioni) si troverà a dover gestire un triennio
basato sugli obiettivi minimi, spesso con risultati deludenti.
La scelta cruciale per l’istituzione è secondo me quella legata ai numeri: se si
privilegia il numero d’iscritti, spesso lo si fa a scapito della qualità. Un
triennio “selettivo” con un esame d’ammissione che verifichi il possesso di una
serie di competenze, è sicuramente meno appetibile, ma la sfida del
conservatorio la si gioca nella fascia pre-accademica: è lì che le competenze si
formano e si sviluppano, è lì che il conservatorio cresce il proprio vivaio,
secondo il proprio modello, e seguendo una tradizione (l’avviamento precoce agli
studi musicali) che ha parecchi secoli di vita, e nessuno, che io sappia, ha mai
contestato con motivazioni scientificamente apprezzabili.
Anna Bellagamba è nata e vive a Ferrara. Ha
compiuto gli studi musicali presso il Conservatorio della sua città, e in
seguito presso l’Accademia Musicale Pescarese e l’Università degli studi di
Bologna, conseguendo con il massimo dei voti il diploma di pianoforte e la
Laurea in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo. Ha lavorato
per il Teatro Comunale di Ferrara come maestro collaboratore. Da diversi anni
dedica la propria attività artistica principalmente alla musica da camera,
privilegiando la musica del Novecento e le formazioni rare, come il Trio
Ecoensemble (flauto oboe e pianoforte). E’ docente di Musica da camera presso il
Conservatorio "Steffani" di Castelfranco Veneto.
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Una delle facoltà intellettive più importanti per la formazione di un artista e,
più in generale, di un cittadino consapevole, è la capacità di stabilire
collegamenti tra le discipline, e tra queste e l’ esperienza del vivere. Di
elaborare gli stimoli e gli interrogativi che la società contemporanea
continuamente ci pone.
Lo studente di Conservatorio che studia per diventare un interprete affronta una
serie di composizioni che imparerà e approfondirà nel corso dei suoi studi. Ora,
ogni brano musicale è in fondo una sorta di punto nodale nel quale convergono la
personalità creativa del compositore, il contesto storico, culturale ed estetico
in cui egli ha operato, con il quale si è rapportato e al quale egli ha reagito,
assieme ad una miriade di influenze del suo passato e del suo presente.
E’ allora fondamentale, a mio avviso, che lo studente acquisisca il più presto
possibile un approccio che allarghi al massimo l’angolo visuale con cui si
studia una composizione, puntando a far rivivere non solo le note di cui, in
senso fisico, la musica è composta, ma anche, in qualche modo, il processo che
ha portato alla sua creazione. Sono convinto che ciò non solo renda un’
esecuzione enormemente più viva (la renda cioè una vera e propria ri-creazione)
ma sia anche un investimento formativo a lunga scadenza dagli esiti che possono
essere sorprendenti.
Se analizziamo le caratteristiche e i punti di forza della sempre più agguerrita
concorrenza che arriva dall’ estremo oriente e soprattutto dalla Cina, notiamo
(è mia esperienza personale nei corsi tenuti laggiù) che, a fronte di una
straordinaria abilità manuale e tecnica, è proprio questa capacità di collegare
l’ esperienza del suonare alla propria crescita intellettuale ed emotiva che lì,
spesso, manca. Ecco dunque l'importanza di far coltivare ai nostri studenti
proprio quelle facoltà in cui la loro futura concorrenza è assai carente.
Fatta questa premessa, concordo pienamente con le tesi di Anna Bellagamba su ciò
che andrebbe salvato del vecchio ordinamento, e noto come il nuovo sembri
invece, grazie alla sua struttura a moduli a tenuta stagna, puntare proprio
nella direzione opposta. Poca attenzione sembra essere stata dedicata all’
interazione fra i vari campi dello studio. Ogni “modulo” di studio sembra
qualcosa che si inizia e si conclude, con confini chiari e definibili. Questo
errore, gravissimo, deriva probabilmente da una malintesa mentalità tecnicistica
nella quale, per fare un esempio, si parte dall’idea che nel costruire o
riparare un televisore o un computer, la strada più facile, efficace,
verificabile sia quella di assemblare moduli preventivamente definiti.
Il cervello umano merita un trattamento diverso. Per fare un esempio, lo studio
dell’ armonia (e ancor più della composizione) dovrebbe essere continuamente
collegato e applicato alle opere che un esecutore studia, e non confinato nelle
ore e nei crediti del suo corso, e poi più nulla. La conoscenza dell’armonia
dovrebbe divenire una irrinunciabile modalità di ascolto della musica, tale per
cui il nostro cervello si attivi costantemente ed attui una costante “scansione”
di ciò che sente suonare. L’ ascolto "attivo" è fondamentale nella formazione di
un musicista. Spesso devo constatare che gli studenti non ne sono capaci. E'
stupefacente osservare, spesso, come essi siano capaci di entrare in classe,
mentre magari un cantante e un pianista stanno eseguendo un Lied di intensità e
bellezza sconvolgenti, e non diano alcun segno di reazione, né di essersi
accorti di ciò che sta succedendo: spesso si mettono a scrivere qualcosa che non
c’ entra, o guardano l’ orologio, o si mettono a parlare tra loro, dando segni
di impazienza...come se la cosa più importante per loro fosse ricevere la loro
oretta di lezione, quasi per corrispondere a una prescrizione o a un
ordinamento, e non il cogliere la bellezza, nelle occasioni in cui si
presenta... è come se tutto ciò che avviene al di fuori della loro
“programmazione” – potremmo chiamarla così - non li riguardasse.
Se proviamo a immaginarci cosa significhi questa modalità di approccio allo
studio e alla musica, traslata in un ambito più vasto, quello cioè della loro
partecipazione alla costruzione della società in cui vivono, è facile
immaginarci quali conseguenze assai preoccupanti la loro passività comporti.
Possiamo anche pensare a un tratto caratteristico del nostro tempo: infatti,
mentre la musica “colta” è basata sulla creazione di aspettative che spesso
vengono disattese, con un esito che è più interessante e convincente di ciò che
ci saremmo aspettati (partendo dai casi più semplici, come la risoluzione
eccezionale di una settima, le irregolarità della metrica o quelle formali) al
contrario nel 99% della musica commerciale a cui le giovani generazioni sono
esposte c’è una perfetta coincidenza tra le aspettative e quello che
effettivamente accade (ritmo regolarmente in 4/4, frasi di 4 misure, schemi
armonici poverissimi e fatti proprio perché la mente si adagi in una sorta di
alveo di abitudine e ripetizione). Ovvio che l’ ascolto attivo divenga del tutto
superfluo. Pensiamo ancora una volta alle implicazioni “politiche” che questo
atteggiamento comporta: a mio avviso sono enormi, e sarebbe molto interessante
provare a integrarle con le considerazioni di Platone sul valore formativo della
musica.
Apprezzare le continue “sorprese” che la musica ci offre richiede memoria, oltre
che attenzione (altre due virtù spiccatamente “politiche”). Il senso musicale di
un secondo tema presentato alla tonica nella ripresa di una forma sonata si
coglie appieno solo se il nostro cervello ricorda che nell’ esposizione lo aveva
ascoltato alla dominante, e in qualche modo se l’ aspetterebbe ancora così, ma
riesce poi a stabilire un rapporto tra i due sensi diversi...
Alcune delle esperienze formative più interessanti che mi sono capitate in
conservatorio sono state dovute appunto all’ interazione tra campi diversi, e
sono state degli esercizi di elasticità (scrivere fughe in classe di
composizione mentre studiavo il Clavicembalo ben temperato è stato fondamentale
per rendermi conto di come Bach ne scardini l’ impianto formale per ricrearlo
ogni volta in maniera diversa, e “rubare” ai violinisti con cui suonavo un po’
di idee sulla tecnica per provare a trasferirle nel mio campo è stato
utilissimo, oltre che divertente).
Tutto ciò richiederebbe un dialogo in continua evoluzione tra le varie
discipline, e una grande fluidità negli scambi tra loro, tutte cose che nell’
ostinato “incorniciare” e definire ogni campo, tipico del nuovo ordinamento, mi
pare manchino.
Ritengo che qualsiasi scuola, anche la più specialistica, debba innanzitutto
fornire gli strumenti per osservare e definire se stessi in rapporto ad una
società. Questo potrebbe essere di estrema utilità nel reinventare la figura del
musicista “classico”. Penso a come vengono affrontati alcuni temi tipici del
nostro tempo, come l’ effetto serra o la perdita di biodiversità. Quanti avranno
riflettuto sul fatto che la musica “classica” è appunto un ricchissimo esempio
di “biodiversità culturale”, minacciato dall’ omologazione della musica
commerciale a cui ho accennato sopra? La sottigliezza, la diversità, la
ricchezza armonica di Debussy sarà impossibile da percepire e da godere da parte
di chi è stato abituato allo schema di quattro accordi pompato a suon di decibel
in una discoteca, ed è infatti da tempo sparita dal nostro panorama estetico né
più né meno di quanto la ricchezza di sapori delle numerosissime varietà di
frutta o di cereali che fino a pochi decenni fa erano coltivate ha lasciato il
posto all’ omologazione delle poche varietà oggi rimaste. Questo è un problema
di proporzioni notevoli avvertito da molti.
E’ noto in biologia che un ecosistema è tanto più stabile quanto più è
differenziato al suo interno. Quanto questo principio si potrà applicare anche
alla cultura? Quale peso, nella figura del musicista contemporaneo, potrebbe
avere il suo ruolo di “rappresentante” di questa biodiversità e, in quanto tale,
il suo contributo alla salute e all’ equilibrio dell’ “ecosistema culturale” in
cui vive? Quanto il riconoscimento di questa sua importanza contribuirebbe a
fargli superare qual ruolo di “conservatore” dell’ arte del passato che in gran
parte egli ha oggi nell’immaginario collettivo?
Filippo
Faes dopo aver vinto il concorso Schubert di Dortmund nel 1989 è stato invitato
come solista con orchestra alla Philharmonie di Colonia e alla Musikhalle di
Amburgo. Successivamente ha suonato al Gasteig di Monaco, alla stagione
cameristica della Filarmonica di Berlino, al Concertgebouw di Amsterdam, agli
“International recitals“ della BBC di Londra, al Mishkenot Center di Gerusalemme
con direttori tra cui Alun Francis, Volker Hartung, Peter Maag, Carl Melles,
José Serebrier, Leon Spierer.
All'attività di solista affianca la musica da camera (tra gli altri con Bruno
Giurannna, Salvatore Accardo, Toby Hoffmann, Rocco Filippini), la direzione e un
vasto lavoro di ricerca nel campo del melologo, collaborando alla prima
esecuzione in italiano del “Canto di amore e morte dell'Alfiere Cristoph Rilke“
di Ullmann). Insieme ad Angela Annese e Marco Baliani è autore di una
drammaturgia sul Manfred di Byron con musiche di Ciajkowsky trasmessa da Radio 3
e rappresentata in alcuni Festival. E' direttore artistico dell'Ensemble Punto
It, e autore di programmi televisivi sulla musica (come le “Conversazioni al
pianoforte“ realizzate per RAI SAT nel 1999).
Ha partecipato a molte prime esecuzioni, fra cui segnatamente “Di bravura“ e
"Fero dolore" di Azio Corghi. Sempre in veste di direttore ha presentato la
scorsa stagione “Das Lied von der Erde“ di Mahler, nella versione Schönberg
Riehn. E' stato pianista e direttore della prima esecuzione di “Senza vincitori
né vinti“ di Alessandro Grego, su testo di Mario Rigoni Stern e Francesco
Niccolini (voce recitante Arnoldo Foà). Ha progettato e realizzato serie di
conversazioni/concerto.
(dicembre 2010)
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