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INTERVENTI


Quale musicista, quale modello di formazione.
Colloquio con Enrico Pisa, direttore del Conservatorio di Vicenza

di Sergio Lattes

 

Enrico Pisa è diplomato in Composizione e in Musica Corale e Direzione di Coro. Da quasi trent'anni si occupa prevalentemente di ricerca nei campi dell'analisi e della didattica della composizione. È stato eletto direttore il 6 ottobre 2010.
 

Cominciamo con qualche considerazione sulle nuove norme contenute nella legge di stabilità.

Gli studenti, quelli almeno che sono venuti a conoscenza delle novità, sono piuttosto perplessi. Penso che il limite del 31 dicembre 2012 per l’equiparazione del vecchio titolo alla laurea magistrale possa avere riflessi di incostituzionalità. Anche perché non si fa distinzione fra gli eventuali privatisti ammessi (inopinatamente) agli esami dal decreto ministeriale del luglio scorso, e gli studenti che stanno frequentando legittimamente il vecchio ordinamento e che si vedranno conferire un titolo un po’ “depresso” rispetto a coloro che lo hanno ottenuto prima.

Praticamente però non ci sarà molta differenza, perché da sempre il titolo di vecchio ordinamento è valido per l’iscrizione alle graduatorie di terza fascia (graduatorie d’istituto dei non-abilitati per l’insegnamento di musica e strumento musicale nella scuola media), come il biennio, e diversamente dal triennio che non dà questa possibilità.

Trovo forzata, e non sufficientemente condivisa, la scelta dell’equiparazione dei titoli con determinate classi di laurea, definite dalla legge. Mi sembra strano, per fare un esempio, che uno studente  con un qualsiasi diploma di vecchio ordinamento e la maturità abbia un titolo equivalente alla classe di laurea in musicologia. D’altra parte si tratta di un falso problema: l’equiparazione serve per fare il segretario comunale, o l’impiegato alle poste.... Il nostro titolo aveva ed ha una sua peculiarità che doveva essere valorizzata. Non c’era bisogno di corrispondenze, anche se lo prevedeva la legge 508/99. Faremmo meglio a essere un po’ più orgogliosi della nostra peculiarità anziché cercare di essere quello che non siamo.

Trovo giusta invece l’equiparazione del vecchio titolo al biennio. E questo per una precisa ragione: nell’ordinamento italiano ogni sperimentazione ha un ordinamento di riferimento. E’ stato così per le oltre 700 sperimentazioni nei licei, che avevano come riferimento la maturità ordinamentale. Ora se si introduce nei Conservatori una sperimentazione del 3+2 universitario, l’ordinamento di riferimento non può che essere il previgente. E quindi il vecchio titolo deve corrispondere al II livello (come nel 2005, quando le lauree quadriennali sono state equiparate a quelle magistrali). Questo a prescindere dai nuovi contenuti, che sono certo più ampi.

Però se consideriamo le cose dal punto di vista educativo e musicale, così si fa coincidere il triennio con il 6°, 7° e 8° corso dei vecchi percorsi decennali. E il triennio in linea di massima si fa dopo la maturità. Non è tardissimo, per la formazione di uno strumentista?

Certo che è tardi. Ma c’è un fraintendimento di sostanza, e se n’è discusso molto anche qui nel 2005 quando abbiamo introdotto sperimentalmente il regolamento didattico (per inciso: siamo stati i primi a farlo, e quello poi proposto come “tipo” dal ministero si è modulato sul nostro). Non dobbiamo confondere fare il musicista con conseguire il titolo di studio. Se uno è bravo e suona bene, fa la sua carriera senza che nessuno gli chieda un titolo. Del resto perfino per insegnare in un Conservatorio, in presenza di titoli artistici adeguati, tuttora è richiesta la sola  licenza elementare. Ed è giusto che sia così come è già anche all’Università nella quale per l’insegnamento non è richiesta la laurea ma la competenza nella disciplina. Se invece uno vuole un titolo di studio che abbia un determinato valore (quello ora sancito per legge) deve avere gli strumenti culturali per capire di cosa si sta parlando quando si parla di storia della musica,  di analisi, e via elencando. Tutto questo non può essere chiesto a un ragazzino, se non a livelli non specialistici quali erano quelli del vecchio ordinamento. Se vogliamo riempire di contenuti le nostre discipline, anche a livello di approfondimento scientifico, dobbiamo rivolgerci a studenti di una certa età e in possesso di determinati strumenti culturali. Questi sono i contenuti dei corsi accademici, di primo e secondo livello. A saper suonare si può arrivare ben prima, e a prescindere. I corsi pre-accademici sono lì per questo.

A proposito di pre-accademici,  ci sono istituti che assumono personale ad hoc.

Noi no. Personalmente lo trovo insensato, e anche rischioso sul piano legale. Per fortuna i nostri docenti non sono interessati a queste posizioni, e del resto conoscono bene il contratto che in proposito è molto chiaro.

E sempre sulla formazione pre-accademica, com’è nel territorio di Vicenza il quadro delle altre scuole che la fanno?

Con l’aiuto determinante dei dirigenti dell’Ufficio scolastico provinciale che si sono succeduti nel tempo, abbiamo combattuto una battaglia per la diffusione delle suole medie ad indirizzo musicale: oggi sono 26, forse ancora non bastano ma sono molte in raffronto alla media nazionale. E altre province del Veneto ci hanno seguito su questa strada. C’è stata perfino una scuola che ha avuto per un certo periodo due corsi ad indirizzo: ha potuto fare un’orchestra grande con la quale sono stati prodotti degli spettacoli interessanti. Ci stupiamo spesso delle orchestre straniere fatte di ragazzini, come di cosa impossibile per noi: ebbene qui lo abbiamo fatto – e devo dire con buona qualità. C’è anche una buona qualità degli insegnanti che operano nelle medie ad indirizzo. Del resto, sono i nostri diplomati, vorrei  ben vedere!

C’è poi il liceo musicale a Vicenza e un liceo in fieri a Bassano: ancora troppo poco. A Vicenza il liceo classico ha avuto la sperimentazione musicale – oggi divenuta ordinamento musicale – da ben 8 anni, ed è un bel liceo. Nell’insieme, fra media e liceo, penso che Vicenza goda di una buona situazione. Le medie fanno un ottimo lavoro, e abbiamo molti studenti che vengono da lì.

Quindi non tutti i vostri studenti “nascono” in Conservatorio.

No. Abbiamo nella provincia anche molte strutture private, e alcune scuole civiche. Siamo convenzionati con una quarantina di scuole.

Qual è il contenuto di queste convenzioni, qual è il ruolo del Conservatorio?

Non è certamente quello di andare a sindacare sull’operato delle  scuole private. E’ un rapporto paritetico, di pari dignità. Ciascuno nelle sue competenze, naturalmente. Le scuole convenzionate possono usare il logo del Conservatorio – a prescindere dal fatto che gli forniscano, o meno, allievi. L’interesse del Conservatorio è di sostenerle, col suo riconoscimento, nella loro attività di formazione sul territorio, dando loro in questo modo più peso anche nel rapporto con gli enti locali del loro territorio di pertinenza. Il “nostro” interesse vero è che si faccia musica sul territorio: la qualità viene di conseguenza, col tempo. Al limite, mi sta bene anche che una scuola faccia solo pop: non voglio avere di necessità gli allievi delle scuole convenzionate. Devono soltanto adottare i nostri regolamenti didattici, per quanto riguarda i programmi, qualora abbiano una parte degli studenti che vogliono avviarsi al percorso preaccademico. Quando gli allievi vengono da noi a sostenere gli esami di certificazione hanno un loro docente in commissione, a parità di diritti con i due docenti del Conservatorio: poiché sono scuole convenzionate che noi riconosciamo come pari, lo studente ha diritto  di avere il suo docente in commissione come lo hanno i nostri. Questo crea inoltre un circuito virtuoso: il docente che viene in commissione prende cognizione degli standard che chiede il Conservatorio, e trasferisce queste conoscenze nella sua scuola. Infine, gli esaminandi delle scuole convenzionate hanno diritto a un abbattimento delle tasse di esame, deciso dal nostro CdA, che in questo momento è del 50%.

C’è un aspetto generale su cui voglio insistere. Le scuole – medie, private, civiche, liceo – hanno un privilegio, quello di poter far coesistere nello stesso gruppo-classe studenti che sono orientati o che strada facendo si orientano verso la formazione accademica, e studenti che studiano uno strumento senza volerne necessariamente farne la loro professione. Queste scuole possono modulare la formazione a seconda delle diverse esigenze, capacità, inclinazioni degli studenti. Medie e licei non devono necessariamente e solo “costruire musicisti”. Il Pecup (profilo educativo in uscita) dello studente, anche del liceo musicale, si riferisce alla persona che esce, successivamente declinato rispetto al tipo di liceo frequentato. Suonare, e più in generale studiare musica, è una delle discipline che concorrono a costituire la persona. E come da un liceo scientifico non escono tutti scienziati e da un classico non escono tutti filologi, così dal liceo musicale uscirà una percentuale di persone che proseguiranno gli studi musicali, e molti altri per i quali la musica sarà stata parte integrante della loro formazione: in ultima analisi il pubblico, quello per il quale i musicisti lavorano.

Però in questa prospettiva i Conservatori perderanno il “controllo” della formazione fin dall’inizio, la “verticalità” del percorso. Cosa che molti ritengono essenziale.

Io non sono di questo avviso. Intanto non sono così sicuro che il percorso “verticale”, cioè il docente unico, sia sempre e in assoluto un valore. La possibilità di incontrare tecniche diverse, modalità d’insegnamento diverse, è una ricchezza. Poi osservo che un docente di Conservatorio nella sua carriera può “impostare” tutt’al più una trentina di studenti, che poi restano con lui molti anni. Un insegnante della media ad indirizzo imposta ogni anno sei o sette ragazzini e acquisisce così una curvatura della propria professionalità che un docente di Conservatorio non è tenuto ad avere. Terzo: la programmazione di qualsiasi scuola secondaria avviene per obiettivi, e quindi ti costringe a razionalizzare il tuo modo d’insegnare. Pratica che in Conservatorio non è molto diffusa anche perché il target degli studenti che vi accedono è sempre stato più motivato. Il criterio è in genere più empirico: si suona così e basta. Spesso se uno studente ce la fa è “dotato”, altrimenti è più difficile. È possibile però che sia il docente che non è abituato a verbalizzare compiutamente quello che pretende – perché lui stesso a sua volta non è stato educato a formulare delle richieste, o perché le sue doti naturali non gli consentono di rendersi conto delle difficoltà che uno studente può incontrare. Ma tagliare tutti gli studenti che hanno delle difficoltà vorrebbe dire compromettere lo scopo educativo dell’istituto: ci possono essere studenti che hanno grosse difficoltà in itinere ma che sono fondamentalmente ottimi musicisti: basta saperli guidare indicando loro qual è la strada per superare le difficoltà che hanno. In conclusione, penso che il percorso assolutamente unitario non sia necessariamente una ricchezza o una garanzia.

Questo non vuol dire avere dubbi sulla qualità del Conservatorio, che io amo visceralmente: non farei il mestiere che faccio se non fosse così. In Conservatorio ho conosciuto grandi insegnanti, che mi hanno aperto la mente, e incontro costantemente grandi colleghi musicisti. Ma detto questo, mi rendo anche conto che il tempo è passato, gli studenti sono oggi molto diversi da come eravamo noi e bisogna affrontarli modificando il modello di formazione che abbiamo conosciuto da studenti.

Perché l’attuazione della 508 non finisce?

C’è un primo motivo. L’ultimo regolamento, quello che non arriva, è temuto, perché introduce la valutazione (che però arriva comunque: tutto il sistema secondario e universitario sarà sottoposto a valutazione). Sulla base della valutazione si apriranno, si chiuderanno, si accorperanno le istituzioni. E questo è doloroso, perché ciascuno è convinto della necessità della sopravvivenza del luogo nel quale opera.

Non c’è poi una chiara prospettiva di sistema: non si sa se siamo tanti o pochi perché non si ragiona sulle prospettive future delle professioni e sui numeri di cui ci sarà bisogno. E mancando i riferimenti alle professioni gli studenti talvolta fanno nel biennio più o meno le stesse cose che fanno nel triennio rischiando di rendere il nostro 3+2 particolarmente inefficace. Insomma mancano i presupposti per un orientamento del sistema, e quindi è difficile dargli un regolamento.

E c’è un’altra ragione: l’ufficio legislativo del Ministero è convinto che questo regolamento, che nella sostanza è stato scritto nel 2003 all’epoca del DPR 132, insieme con il 212 sia obsoleto e inapplicabile in quanto superato dalla realtà vissuta dalle istituzioni.

Prima o poi, dovremo comunque tornare a ragionare su dove deve andare il sistema, che tipo di musicista deve produrre. Forse ci accorgeremo che dovremmo/potremmo produrre anche figure di tecnici, e non solo di esecutori di musica. Riappropriarci di tutte le professioni che attengono in qualche maniera alla musica. Tutti coloro che fanno professioni tecniche intorno alla musica e contemporaneamente sanno leggere la partitura svolgono la loro professione meglio di quelli che non la sanno leggere. Coloro che hanno suonato uno strumento sono in grado capire cose che uno che non suona non capirà mai. Dovremmo riappropriarci, anche, di un segmento di ricerca, che in Italia nessuno sta affrontando: voglio dire al di là della musica antica, della paleografia e della musica elettronica. La parte maggiore, sull’aspetto performativo della musica e sulla musica dell’800/900 – come ricerca – in Italia non si sta facendo, e noi musicisti saremmo gli unici a poterla realizzare. Beninteso con l’aiuto e in sinergia con i colleghi dell’Università, rispetto ai quali abbiamo competenze diverse. Certo i problemi che abbiamo davanti sono molti, e bisognerebbe lavorarci.

Il nostro sistema è in grado di fare questa auto-analisi, di rigenerarsi?

Credo, devo credere di sì. Ma ci sono grandi resistenze. In genere viene rifiutato un discorso di razionalizzazione dell’offerta rispetto al territorio. Nessuno è disposto a cedere un minimo di sovranità. Mi domando, tanto per fare un esempio a caso, se sia plausibile che in Veneto ci siano 7 bienni di specializzazione in Violino. Facendo salva la formazione triennale, bisognerebbe trovare gli argomenti di elezione di un determinato istituto, e su quelli concentrare risorse, personale, studenti. Ma questa logica implica che, su qualcosa, ciascuno debba ritirarsi. Ci si riuscirà mai?

L’altra resistenza, e ne abbiamo fatto cenno prima, è quella all’analisi degli sbocchi lavorativi. Magari potrebbe portare ad avere pezzi importanti delle istituzioni dedicati al jazz, alla musica antica, alle professioni tecniche, e solo una parte alla musica “classica”. Quanti sono disposti a ragionare su ipotesi del genere?

C’è ancora un altro problema, quello dello “spacchettamento” delle competenze insite nei corsi generalisti, come Composizione, o i corsi di strumento a livello specialistico. E’ impossibile che tutti i docenti siano esperti di tutto. E viceversa, andrebbero utilizzate le reali competenze di ciascuno. In questo, un ruolo possono averlo i dipartimenti, laddove possano operare in autonomia nell’attribuzione delle docenze.

L’ultima domanda è d’obbligo: l’ingresso nel sistema delle Accademie private di musica.

Non credo sia stato ben fatto. Se si applicasse rigorosamente la norma, se ben ricordo le Accademie private dovrebbero essere obbligate a dotarsi degli organi statutari, ad applicare il nostro contratto collettivo, dovrebbero avere gli stessi lacci e lacciuoli che abbiamo noi. Altrimenti si tratta di concorrenza sleale. Io devo utilizzare al meglio i docenti che ho, devo accettare chi viene per trasferimento secondo le vecchie regole del 2002 (a proposito: a livello centrale non sono stati capaci di modificare la mobilità, anche se delle proposte c’erano). Non posso fare contratti a persone esterne se c’è la possibilità di soddisfare l’esigenza con risorse interne. Un’accademia privata invece paga chi le pare, quanto le pare.

E’ pur vero che questa disparità di condizioni è attenuata dal fatto che l’offerta dei Conservatori è più completa. Abbiamo tantissime competenze che contribuiscono a formare lo studente, mentre le istituzioni private si concentrano in genere su un grande nome, e tutto il resto  non è allo stesso livello. Il guaio è che gli studenti spesso sono sensibili a questa logica.

In definitiva direi: riconoscere sì, ma parità di condizioni.

febbraio 2013

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