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Quaderni

Pop/Rock un anno dopo
Un quaderno di conversazioni

 

Massimiliano Baggio

con Sergio Lattes


Massimiliano Baggio, docente di Pratica e lettura pianistica, è vicedirettore del Conservatorio di Milano. Suona da molti anni in duo pianistico con Cristina Frosini, e tiene il corso di Prassi esecutiva e repertorio per duo pianistico. Per questa specialità è professore ospite in varie Università all'estero. E' consulente musicale della Società Umanitaria di Milano.

*****

Il decreto istitutivo del corso accademico Pop/Rock ricalca lo schema di tutti gli altri, e quindi non se ne ricavano le motivazioni culturali. Qual è il tuo punto di vista?

Sono favorevole. A parte il fatto che personalmente adoro il Jazz e mi piace il Rock, penso che esista musica bella e musica brutta, il genere non conta. C’è musica bella nel Jazz e nel Rock, e c’è musica brutta nella classica, e lo stesso vale per i compositori. Penso che il Conservatorio faccia bene ad aprirsi a tutto ciò che è musicale. Ovviamente, a ciò che può essere inquadrato in ordinamenti didattici. Ritengo che la commistione dei generi, in questo tipo di Istituto, sia positiva – e lo renda più vivo e, per così dire, colorito.

D’altro canto mi pare che i musicisti Pop e Rock debbano anch’essi ricevere una preparazione musicale, per certi aspetti, a livello accademico: come solo il Conservatorio può dare. Dare un ordinamento didattico, una forma accademica allo studio di generi che non l’hanno mai avuta, farà bene anche a questi tipi di musica.


Guardando più da vicino, che cosa trovo di diverso venendo in Conservatorio, rispetto a quello che troverei nelle molte scuole di Pop/Rock che ci sono in giro?

Intanto una serie di insegnamenti che potresti non trovare in una scuola “commerciale”, come Composizione, Analisi, Storia della musica. Anche Teoria Ritmica e Percezione (quella che una volta era Teoria e Solfeggio) portata a livello accademico è un forte valore aggiunto.

Un altro aspetto è quello degli spazi dove è possibile esibirsi. Abbiamo inaugurato il primo anno accademico con un concerto misto della nostra orchestra Jazz e dei docenti del Pop/Rock in Sala Verdi: dunque una sede eminentemente “classica”, anche questo è un valore aggiunto.

E infine credo che il docente di Conservatorio possa garantire una professionalità più elevata di quello di altre scuole.


Fra le perplessità diffuse c’è quella che per fare la carriera di musicista Pop o Rock non c’è bisogno di un titolo di studio.

Il titolo serve a chi vuole insegnare. Man mano che questi corsi si stabilizzeranno nei Conservatori, il titolo potrà anche servire a insegnare nei Conservatori stessi. Ma come ogni altro diploma di Conservatorio, servirà a insegnare nelle altre scuole. Del resto è stato così anche per il Jazz: all’inizio ci si domandava a cosa potesse servire una “laurea” in Jazz, ora ci sono moltissimi insegnamenti, a Milano abbiamo una Big Band e siamo sede dell’orchestra nazionale di Jazz dei Conservatori. Dunque c’è stata un’espansione imponente.


Veniamo un momento alla questione delle risorse. C’è un budget per le attrezzature, che nel caso del Pop/Rock sono molto importanti?

Si, dal 2016-17 sono stati investiti in strumenti e attrezzature, per tutte le Scuole, non solo per la Popular music, circa 500.000 euro ritagliati dal nostro bilancio. Ci manteniamo grazie alle rette degli studenti, e nel caso di Milano il Conservatorio per fortuna ha altri introiti. Per noi il problema è piuttosto quello degli spazi e della contiguità con gli altri insegnamenti, cioè dell’insonorizzazione. Può darsi che Conservatori meno grandi abbiano sedi più moderne e meno “fame” di spazi. Noi siamo in cerca di spazi esterni a quello principale.


In genere si ritiene che all’età dell’ingresso al livello accademico i musicisti debbano essere in buona parte già formati, e in particolare a Milano questa tradizione è molto sentita. Fra l’altro, questa sensibilità alla questione dell’età è stata alla base di molte resistenze verso la riforma. Nel caso di cui parliamo, chi sono i vostri studenti? Su quali requisiti accedono?

Sia per il Jazz sia per il Pop/Rock si tratta di giovani che all’ingresso sono prevalentemente fra i 18 e i 25 anni con, in genere, esperienze pregresse. Entrano sulla base di un esame d’ammissione, e posso dire che l’accesso è stato non meno selettivo di quanto avviene nei settori tradizionali, perché c’è stato un forte disequilibrio fra la domanda di accesso e i posti disponibili. Inoltre non pochi studenti sono venuti (sempre con esame di ammissione) da altri Conservatori, attratti dall’alto livello dei docenti che abbiamo potuto reclutare, anche qui perché abbiamo potuto operare una selezione su base molto ampia.


Quale lo status dei docenti?

Su base organica abbiamo potuto inserire solo una cattedra di Composizione Pop/Rock e due di strumento: Pianoforte e Batteria. Gli altri insegnamenti sono ricoperti con docenti contrattisti, individuati grazie a bandi per la formazione di graduatorie d’istituto. In questo modo l’offerta formativa può meglio seguire la domanda. Quanto alle condizioni economiche, non c’è contrattazione individuale.


Visto l’ordinamento e le sue tabelle, sembra che il Pop/Rock costituisca nel Conservatorio una specie di corpo separato, ha solo 2 discipline in comune con gli altri settori (Teoria ritmica e percezione, Storia della musica). Questo non sembra favorire una contaminazione culturale per gli studenti.

Penso che in prospettiva la contaminazione ci sarà. Intanto, della nostra orchestra Jazz fanno parte volontariamente strumentisti “classici”, e non solo saxofonisti ma anche trombonisti e clarinettisti. Lo stesso vale per l’ascolto: gli studenti dei corsi “tradizionali” vengono ai nostri concerti Jazz più che ai nostri concerti “classici”. Inoltre gli studenti Jazz e Pop/Rock partecipano più degli altri alla gestione dell’istituto: su 7 candidature per la Consulta ben 4 sono venute da questi settori, che costituiscono meno del 10% della popolazione studentesca.

Quanto all’impianto disciplinare, Composizione Pop/Rock comprende anche le basi dell’armonia e della strumentazione. Francamente non so se lo stesso avvenga nelle altre scuole.


Uno dei casi più tipici di “separazione” riguarda i pianisti. Oggi un pianista “classico” può arrivare a diplomarsi senza aver avuto un contatto neppur minimo con il linguaggio del Jazz, per esempio.

E’ un nostro limite culturale. Il Jazz porta con sé l’improvvisazione, che nella musica classica si è perduta. I jazzisti potrebbero insegnarla ai pianisti, se il Ministero capisse che vanno modificate le declaratorie e che basterebbe inserire “Tecniche dell’improvvisazione” nel piano dell’offerta formativa [le “declaratorie” assegnano l’improvvisazione ai pianisti “classici”, che in genere non la sanno fare, NdA].


Il Jazz e soprattutto il Pop/Rock (o come altri preferiscono dire, la Popular Music) sul mercato sono dei giganti rispetto alla musica classica, e questo può generare degli effetti distorsivi sui Conservatori. E’ facile che la domanda sia molto elevata, e che le istituzioni più fragili possano sbilanciarsi molto verso questi corsi.

Vero, la domanda è molto elevata. E’ una domanda di formazione, di competenze, e – perché no – di titoli di studio. Un istituto grande come quello di Milano non corre certo il rischio di sbilanciarsi, ma non mi scandalizza se in altri casi questi nuovi corsi contribuiscono a “tenere in piedi” delle istituzioni e consentono loro di insegnare anche la classica, che indubbiamente ha molto meno “domanda”. La musica classica si studia sempre meno – e si suona sempre meno: per le società di concerti il problema è lo stesso. All’estero la pensano più liberamente di noi, ricordo che alla Juilliard School di New York c’è un grande comparto di Jazz, e uno di Danza. C’è un’idea di convivenza fra linguaggi. Dunque per i Conservatori con questi nuovi corsi si apre un grande mercato. Del resto oggi gli istituti sono 80: come farebbero a sopravvivere altrimenti?


Si potrebbe definire dunque una questione di competitività fra generi?

Finora siamo stati troppo poco competitivi. Come dicevo all’inizio, non faccio questione né di valore, né di professionalità, né di serietà di preparazione: possono esserci dappertutto, in ogni genere di musica. Però c’è una differenza: “noi” quando andiamo sul palcoscenico soffriamo, “loro” si divertono. Hanno un rapporto diverso con la musica, non vivono come noi la sacralità del testo. Perciò penso che la convivenza e la contaminazione ci faranno bene.


Gennaio 2019

 

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