Clementina Casula,
Diventare
musicista
Un'indagine sociologica sui Conservatori di musica in
Italia
di Sergio Lattes
Un’indagine che viene
da un altro mondo
Questo libro è
una eccezione, e proprio qui sta la ragione del suo interesse. Una eccezione
perché scritto da una studiosa di tutt’altra disciplina, che si avventura con
gli strumenti tipici della sua disciplina – la sociologia - in un mondo che è
tipicamente autoreferenziale, convinto quindi di poter essere veramente compreso
soltanto da chi ne fa parte, da chi è iniziato.
Ma lei ha anche competenze musicali (è diplomata in
pianoforte), ha scritto prima di questo saggio almeno 4
pubblicazioni in cui viene toccato il mondo della musica (→)
e questo le consente di superare la soglia iniziatica.
Si
avventura dunque con
metodo, con rispetto, ma affondando il bisturi della sua ricerca nella carne
viva di quella particolarissima didattica che si svolge nei Conservatori di
musica italiani. E sottolineo italiani perché, nonostante la riforma del 1999 e
le successive, disordinate norme applicative, il modello didattico
profondo
che continua a vivere nelle istituzioni italiane è quello antico, che deriva
direttamente dai Conservatori-orfanotrofi del ‘600
e dalla reimpostazione otto/novecentesca modellata – solo in parte – sul
Conservatoire
parigino.
Intendiamoci,
Diventare musicisti
non è una lettura
facile. All’apparenza, si presenta come un’opera scritta in sociologhese
stretto, a cominciare dai titoli dei capitoli e dalla struttura organizzativa
del testo (1, 1.1, 1.1.1, 1.1.2 e così via). Però basta scorrere i titoli dei
paragrafi (e ovviamente il testo), per capire che la studiosa, con il distacco
di chi proviene da un altro ambito disciplinare, ha centrato in pieno i nodi di
quel particolare ambiente didattico. Con i suoi pro e i suoi contro, che vengono
fuori dall’analisi senza che l’autrice debba esporre suoi giudizi personali,
che
appaiono prevalentemente
nel capitolo finale, ben separati dalla parte descrittivo-analitica dell’opera.
E con il supporto di un apparato di note e bibliografico cui, con l’acribia
dello studioso, è appoggiata ogni affermazione
che non derivi
direttamente da questionari e interviste.
Ma l’ampia
bibliografia e i riferimenti ad essa disseminati nel testo hanno una specifica
ragione d’interesse: creano una fitta rete di relazioni concettuali fra le
vicende della
formazione musicale professionalizzante e la storia del Paese, la storia del dibattito culturale e
politico sulle riforme della scuola, la ricerca pedagogica e metodologica
generale. Relazioni che mi sono sembrate tanto più preziose in quanto poco ricorrenti nella scarna
pubblicistica sul settore, e nell’abito mentale della maggior parte di noi
che vi operiamo.
__________________
Il libro
L’opera è strutturata
in quattro capitoli, più un quinto che si presenta come conclusione, ma anche
come il luogo dove l’autrice manifesta con franchezza il proprio punto di vista
culturale e politico sulla situazione dei Conservatori a quasi vent’anni dalla
riforma.
Dopo aver brevemente
esposto, nel primo capitolo, le premesse teoriche e la metodologia del lavoro,
nel secondo (Misurare
il campo: le statistiche sui Conservatori dal Novecento ad oggi)
viene offerta un’ampia mole di dati sull’evoluzione della distribuzione
territoriale degli Istituti, la dinamica della popolazione studentesca e della
popolazione docente nel corso del Novecento e fino ad oggi: in funzione appunto
della distribuzione territoriale, del genere, della tipologia di corso
principale frequentato, delle diverse fasce dell’ordinamento (preaccademico,
vecchio ordinamento, nuovo ordinamento), del numero dei diplomati. Con un ampio esame
della tortuosa
storia dei meccanismi di reclutamento dei docenti.
Il terzo capitolo (Definire
il campo: le lotte simboliche per la collocazione dei Conservatori nel sistema
di istruzione nazionale)
costituisce una vera e propria storia di questo particolare comparto
dell’istruzione, dalle origini cinquecentesche dei Conservatori alle politiche
dello Stato unitario, al Fascismo e alla riforma Gentile, al dibattito sulle
riforme della scuola generale nel dopoguerra. Viene messo in risalto il formarsi
nella sinistra
politica di una corrente di
pensiero che mira a ricomprendere l’istruzione musicale specialistica nei
processi di riforma, mettendola in stretta relazione con un progetto di organica
partecipazione della musica al canone dell’istruzione ordinaria. Si tratta di
una sintesi storica ampia ed efficace, che avvicina la lente man mano che ci si
avvicina agli sviluppi recenti e recentissimi.
Il quarto capitolo (Interagire
nel campo: vecchie e nuove logiche regolative dei Conservatori)
è il vero cuore dell’opera e ad esso dedichiamo
un esame più dettagliato.
In una logica “non valutativa ma conoscitiva”, il centro di osservazione è il
confronto fra le logiche dell’ordinamento prima e dopo la riforma del 1999, non
solamente sul piano dell’organizzazione materiale degli istituti e della
didattica ma anche – e sopratutto – su quello degli
habitus
mentali che sono sottesi ai comportamenti di tutti gli attori.
L’analisi si articola su tre livelli che
vengono
esaminati prima nel vecchio e poi nel nuovo sistema: il reclutamento degli
allievi, la loro formazione, la loro professionalizzazione. Al centro ideale del
discorso sta la “resilienza
istituzionale del vecchio ordinamento”,
cioè quell’insieme di comportamenti, di logiche, di abiti mentali, di “rituali
e routines”
che caratterizzavano il sistema dei Conservatori e che si sono
conservati sostanzialmente immutati fino all’ultimo conflitto mondiale. Un
sistema del tutto “separato” da quello dell’istruzione nazionale, relativamente
autonomo e sostanzialmente autoreferenziale. Fondato su un collaudato modello di
“bottega artigiana”, sede di un sapere pratico che si trasmette solo nel
contatto diretto uno-a-uno fra maestro e allievo, che si regge su una logica di
“modellamento” anziché di trasmissione culturale, e di conseguenza non necessita
di circolazione verbale o scritta se non in misura minima; e che mira a un ben
definito orizzonte occupazionale.
Il modello del vecchio
ordinamento viene esplorato, con il supporto delle interviste, in ogni sua
piega. Dall’”incorporazione” dello strumento attraverso lo studio tecnico ai
vari aspetti della relazione maestro-allievo (fino agli eccessi delle punizioni
corporali, delle pressioni psicologiche, delle molestie sessuali),
alla complessa relazione fra programmi d’esame comuni e specificità delle
singole “scuole” (nel senso di tradizioni e stili didattici peculiari delle
singole genealogie maestro-allievo) al correlato rapporto “proprietario” fra
docente e allievo.
Viene poi analizzato
il versante della precoce “vocazione” e selezione degli allievi, e individuato
lucidamente il “miraggio del concertismo solistico”, cioè il modello didattico
informato a un ideale tipicamente ottocentesco di virtuoso. A questo proposito
riprendo qui una gustosa citazione (pag. 98) che viene appunto dall’Ottocento
(Guido Tacchinardi, direttore del Conservatorio di Firenze) e che potrebbe
definirsi profetica:
“[...
Sentiamo] i violinisti, i flautisti, i clarinettisti, i trombisti, tutti
insomma gli allievi delle scuole strumentali, che per afferrare un documento
legale di capacità
[un titolo di studio, N.d.A.],
qual è il diploma di
alunno emerito, s’arrabattano a dar prova di virtuosità da
concerto, [... così] mentre aumenta ogni anno la schiera dei
concertisti, diminuisce a vista d’occhio quella dei suonatori
d’orchestra; e mentre si ha un visibilio di pseudo pianisti e
pianiste trascendentali, il numero di coloro che sappiano accompagnare
correttamente un pezzo per canto si fa ogni dì più
esiguo”
Questo modello è stato
messo in crisi dalla proliferazione dei Conservatori nel secondo dopoguerra, che
peraltro non ha seguito “una
strategia programmatoria ministeriale (basata sull’analisi dei fabbisogni dei
territori o sulla ponderazione dell’offerta didattica alle esigenze del mercato
del lavoro), bensì logiche di tipo politico-clientelare”:
aprendo una contraddizione vistosa fra la logica del modello e la mutata realtà
del mondo musicale. Inoltre
viene ricordata la diversa qualità
della “domanda” che si veniva affacciando
ai Conservatori: in non poche zone del Paese il
nuovo e sospirato
Conservatorio era l’unica risorsa formativa che si offriva al generale bisogno di educazione/cultura
musicale.
L’analisi si concentra
quindi sul nuovo ordinamento, seguendo la stessa articolazione: reclutamento
degli allievi (ora “studenti”), la formazione secondo il nuovo modello
“accademico”, la professionalizzazione. Il concetto chiave è
quello che dà titolo alla seconda parte del cap. IV: “La
frattura dell’habitus del musicista classico nel nuovo ordinamento”.
Il
modello descritto finora era stato messo sostanzialmente in crisi dalla
proliferazione dei Conservatori e dal mutamento dell’utenza, ma aveva tuttavia
formalmente resistito alle
contraddizioni
fino alla fine del sec. XX.
Con la legge di
riforma (508/1999) il conflitto fra ordinamento e modello didattico emerge.
La riforma collega idealmente il nuovo Conservatorio
“terziarizzato”, cioè a livello pari all’Università, alla
creazione di
un sistema di istruzione musicale diffusa nella scuola ordinaria. Che
invece non ha luogo, se non in minima parte (l’istituzione delle
scuole medie a indirizzo musicale, mal distribuite nel territorio e che offrono
solo alcuni strumenti musicali;
il liceo musicale, con la sua identità ambigua, arriverà oltre un decennio dopo;
manca un “approccio
sistemico”
che renda unitaria e continua la formazione musicale pre-accademica).
Viene quindi, in prospettiva, a mancare il “vivaio” cui il nuovo Conservatorio
possa attingere “studenti
con una preparazione idonea a un ingresso nel livello accademico della
formazione musicale professionalizzante”.
E’ proprio il
carattere professionalizzante che viene messo in crisi, e i docenti di strumento
percepiscono un abbassamento del livello qualitativo degli studi, nonostante i
miglioramenti della formazione musicale/generale degli studenti. Alla mancanza del
“vivaio” i
Conservatori reagiscono mettendo in atto una corposa offerta di corsi
pre-accademici, che in sostanza suppliscono le fasce inferiori e medie del
vecchio ordinamento.
Ma le caratteristiche
dell’utenza sono cambiate. Gli strumenti tradizionali della prassi classica –
con l’eccezione del pianoforte che gode di una certa “polivalenza” - soffrono
una diminuzione della domanda da parte di un’utenza sempre più influenzata dai
costumi (e dai consumi) musicali di massa. I docenti – non tutti
– soffrono il contrasto fra le nuove regole e il modus operandi cui erano
educati da sempre. Chi si trova a “stare
comodo” nel nuovo ordinamento sono i corsi – prima definiti sperimentali –
legati ai linguaggi estranei al canone classico-romantico:
il Jazz in primis, la musica elettronica,
e successivamente (è
argomento recentissimo) il Pop-rock. Una domanda di
formazione che “prima” veniva riconvertita e ricondotta per così dire d’autorità
all’interno del canone classico, considerato l’unico legittimante studi musicali
superiori. Ma poiché la riforma è “a costo
zero”, gli organici non sono aumentati e i nuovi corsi cannibalizzano i
tradizionali: “L’avanzata
degli abitanti dell’Isola del Jazz è dunque vissuta da molti docenti residenti
nella Terra dell’Armonia, incardinati in organico, come una sorta di
destituzione dal ruolo di sovrani assoluti nel campo della formazione musicale
classica, da parte di un gruppo di facinorosi abusivi”.
Ed
ecco
che, come già nell’Università, si viene affermando un modello organizzativo
“managerialistico”, che tende a conformare lo sviluppo dell’istituzione alla
domanda dell’utenza, anziché orientarla secondo un modello
basato sulle competenze di cui l’istituzione è portatrice.
Questo modello,
inoltre, “esautora” i docenti dal ruolo di garanti del raggiungimento degli
standard qualitativi da parte degli studenti e a sua volta
contribuisce a un abbassamento del
livello medio di preparazione. Si perde la dimensione
comunitaria del Conservatorio, che generava un forte senso di appartenenza, a
favore di una formazione standardizzata: è un servizio, quando finisce cessa
ogni relazione fra docente e studente.
Qualcosa di abbastanza
simile all’Università di oggi.
Una parte della classe
docente ha reagito con una profonda crisi d’identità. Lo studente, specie a
livello preaccademico, non è più quello di prima, fortemente motivato e disposto
a un cursus fondato su una forte disciplina interiore prim’ancora che nel
rapporto col maestro. I modelli pedagogici circolanti sono altri, più permissivi
e più modulati sulle diverse fasi dello sviluppo nelle diverse età. La relazione
maestro-allievo, tipica dell’insegnamento dello strumento, tende a trasformarsi
nella relazione professore-studente, meno personale/affettiva e più negoziale. E
la “perdita di centralità” dello studio dello strumento, da molti lamentata,
accentua questo processo. “Si è buttato via il bambino con l’acqua sporca”
riassume il giudizio di molti sulla riforma.
A tutto questo elenco va aggiunta la sempre
maggiore ristrettezza delle risorse finanziarie erogate dal Ministero, e in
particolare il mancato ammodernamento delle strutture, delle dotazioni
strumentali, delle risorse tecnologiche e telematiche.
I paragrafi conclusivi
di questo IV capitolo – il cuore del lavoro, come si diceva all’inizio – toccano
una serie di questioni delicate e complesse. La prima, e primaria, è quella
dell’isomorfismo
istituzionale
verso il modello universitario. In sintesi: il piccolo settore Afam è entrato
nella casa dell’istruzione terziaria, della quale l’Università era stata
fin’allora “unico
inquilino”.
La sproporzione di peso fra i due settori è evidente. Questo ha generato una
tensione perversa per cui i Conservatori, facendo proprio il pregiudizio
universitario, hanno sentito il bisogno di legittimare la propria presenza
nell’istruzione terziaria non “attraverso
una revisione del vecchio modello, adeguata ai nuovi fabbisogni della formazione
professionalizzante musicale di livello accademico, bensì attivando un processo
di isomorfismo coercitivo e mimetico [...]”,
cioè scimmiottando assetti, logiche, denominazioni tipici dell’Università. Fino
al voto in trentesimi. Eppure
l’esigenza
di ammodernamento degli studi, di allargamento dei repertori e dei linguaggi, di
superamento del modello solistico-virtuosistico era
ampiamente diffusa nella classe docente: ci sarebbero state quindi le condizioni
per un ripensamento “non-isomorfico”. Mentre invece “il
sapere pratico e specialistico distintivo del modello formativo in
Conservatorio, fatto di sperimentazione e sedimentazione dell’esperienza
gradualmente acquisita
[è stato sacrificato]
ad un sapere
generalista tipico del livello accademico e sempre più prevalente anche nella
scuola superiore”.
La seconda questione
che occupa la fine del capitolo è quella della crescente distanza fra
Conservatorio e lavoro musicale. Le cause indicate sono molte: dal divieto del
cumulo di impieghi fra orchestre e insegnamento (*) al reclutamento poco
meritocratico che ha inserito molti docenti lontani dall’esercizio delle
professioni musicali, con conseguente frequenza parallela (più o meno
clandestina, talvolta concordata) da parte degli studenti presso altri docenti o
altre scuole ritenute più prestigiosi o meglio inseriti nei circuiti
professionali; le modifiche del meccanismo di costruzione delle carriere nel
campo classico, sempre più competitivo fino al punto che neppure i più
importanti concorsi internazionali garantiscono stabilmente una carriera; il
ritardo anagrafico degli studenti “accademici” rispetto alle esigenze di alcune
carriere, più simili a quelli degli atleti d’élite.
Le risposte a queste
criticità sono varie, e vanno dalla necessità di ampia disponibilità finanziaria
da parte delle famiglie per promuovere le
carriere dei giovani, allo sviluppo di
identità professionali flessibili, “cross-over” fra i vari generi musicali; fino
alle capacità auto-imprenditoriali o addirittura all’intervento di
professionisti del marketing.
Alla fine rimane il
dubbio che, analogamente all’Università, molti
giovani vadano
in Conservatorio molto meno per imparare che non, piuttosto, per conseguire
titoli di studio, e spesso più
titoli di studio, in un panorama di
svalutazione progressiva dei titoli stessi, “per
ampliare – a fronte di una forte incertezza degli orizzonti occupazionali – il
numero di sbocchi professionali all’interno dei quali far valere le proprie
credenziali”.
E c’è infine la storia
del regolamento-fantasma, ossia dei “successivi decreti” che ancora mancano
dopo 19 anni: quelli
che si dovrebbero
occupare del reclutamento dei docenti, oltre che della razionalizzazione
territoriale del sistema (accertamento dei requisiti delle istituzioni,
eventuali accorpamenti…). La legge prevedeva contratti di docenza non superiori al quinquennio,
in una logica “di mercato” che avrebbe dovuto permettere la selezione dei
migliori docenti e conseguentemente dei migliori studenti, a livello anche
internazionale. L’opposizione
sindacale (ma
forse non solo sindacale, N.d.A.)
ha creato una situazione paradossale: giovani e validi docenti condannati alla
precarietà, docenti anziani che hanno fatto, se lo hanno fatto, un
concorso nei primi anni Novanta e entrano tardivamente in ruolo dopo aver magari
perso ogni contatto con la professione.
Casula non manca a
questo punto di osservare con occhio critico anche il reclutamento dei
direttori, che oggi sono elettivi al pari dei rettori delle Università. E
ricorda che molti paesi occidentali hanno optato per “una
designazione del rettore da parte di organismi che ne valutano le competenze
manageriali”, mentre in Italia si è
preferita l’elettività fra i professori ordinari. E nell’Afam senza prevedere
criteri specifici – se non molto vaghi – per definire un profilo adeguato dal
punto di vista artistico, culturale, manageriale.
Le conclusioni
dell’autrice
Al breve capitolo
conclusivo (Riformismi
irresponsabili: l’orizzonte negato ai Conservatori di musica italiani)
sono affidati
i punti di vista
dell’autrice. Prima di darne conto,
è bene rammentare che
quel che fin qui abbiamo cercato di riassumere
è frutto di
un’indagine sociologica, realizzata incrociando le evidenze empiriche
emerse da rilevazioni quantitative e qualitative, ma comunque circoscritta. L’autrice sottolinea
questo specifico aspetto all’inizio del IV capitolo, laddove parla della sua
ricostruzione come “una
tra le tante possibili, definita attraverso l’accentuazione di alcuni elementi
riscontrati con regolarità nelle rilevazioni empiriche, dove tuttavia possono
emergere con contorni sfumati o irregolarità più o meno rilevanti”.
Il che non impedisce,
ovviamente, che la soggettività culturale e
politica della
ricercatrice
sia sottesa al lavoro, in ogni momento.
Il bilancio del processo di riforma che Casula
si propone di fare in questo ultimo, breve capitolo, parte dall'analisi del
questionario somministrato ai docenti intervistati.
I quali appaiono come spaccati a metà nel giudizio sul processo in corso. Sia
per il divario fra tradizionalisti e innovatori di fronte alle nuove incombenze
anche burocratiche, sia per quello fra ottimisti e pessimisti a fronte di un
processo “lacunoso
e contraddittorio”.
La spaccatura viene documentata con grafici che riassumono i risultati della
rilevazione.
Subito dopo viene la sintesi della visione dell’autrice.
All’origine del processo riformatore viene posta la spinta “dal basso” verso una
“valorizzazione
della funzione sociale e culturale della musica e della professione di musicista
nel Paese”,
espressa in modo sistematico nello “Schema di riforma globale dell’insegnamento
della musica in Italia” promosso e presentato da Andrea Mascagni nel 1969,
in rappresentanza di un ampio movimento di musicisti e intellettuali legati alla
sinistra, e formalizzato in Parlamento dal PCI.
Nel concreto dell’azione politica il processo
di riforma viene, nei decenni successivi, crescentemente egemonizzato dal
sindacato autonomo Unams – nato nel 1979 dalle ceneri del “Coordinamento per la
difesa dei Conservatori”, a suo tempo collegato al Partito Radicale. All’azione
di questo sindacato Casula attribuisce un ruolo decisivo nelle vicende
parlamentari della legge di riforma (508/99), venuta a maturazione nel 1999 in
contemporanea con la parallela riforma dell’Università (509). La spinta corporativa, unita a un’innegabile
abilità nell’inserirsi nelle pieghe dell’iter parlamentare, porta a un impianto
nel quale tutti gli istituti e tutti i docenti sono “traslocati” nel nuovo
livello terziario, “senza
alcuna verifica preliminare sui requisiti didattici e artistici della assai
varia popolazione docente [… ] né sulla sostenibilità di tale passaggio in
assenza di un’offerta formativa musicale di base”.
Rinviando – aggiungiamo noi - ai successivi decreti tutti i nodi più spinosi,
fra cui quello dell’equiparazione stipendiale tanto invocata e ovviamente mai
realizzata. I tecnici del Miur adattano al comparto schemi di ispirazione
universitaria, come già descritto prima, e il rimodellamento porta il
Conservatorio a “perdere
la personalità istituzionale che lo caratterizzava in quanto storica istituzione
per la formazione dei musicisti”.
Casula
ritiene che questa trasformazione abbia nuociuto sopratutto ai corsi del ramo
classico, fondati su un reclutamento precoce e selettivo degli allievi, mentre è
stata molto più funzionale per i settori “nuovi” (jazz, pop, nuove tecnologie) e
a quelli più “teorici” come musicologia, musicoterapia, didattica della musica).
E che il nuovo assetto si presenti più aperto verso un’utenza diversa da quella
tradizionale, interessata a un rapporto semi-professionale o amatoriale con la
musica.
E richiama
infine l’abbandono da parte governativa nei confronti del settore negli anni
successivi, quando
con la
decretazione
conseguente
alla legge
508 si sarebbe dovuto dare concretezza e organicità al processo di riforma.
Sopratutto, i governi hanno rinunciato a ogni volontà di “formulare
il riordino nei termini di un discorso di grande prospettiva […] inserendolo
all’interno di strategie di sviluppo a lungo termine per il Paese, per far
discendere […] conseguenze favorevoli per il futuro della musica in Italia”.
____________
Alcune considerazioni
Diventare musicista
è un libro corposo, forse la più ampia e più organica indagine che sia stata
pubblicata sui Conservatori di musica italiani. Non solo in termini di analisi
ma anche nella capacità di offrire al lettore una prospettiva storica. E’
un’opera di alta densità in cui, al di là dello scrupolo scientifico che
delimita e circoscrive costantemente la portata di ogni assunto, traspare in
ogni momento una forte tensione etica nei confronti dei processi che vengono
descritti. L’opera individua con lucidità il problema “originario”
dell’istruzione musicale in Italia nell’esclusione della pratica musicale dai
“saperi legittimi” codificati nel sistema scolastico. Esclusione da cui discende
la “separatezza” dell’istruzione musicale professionale e la sua collocazione
anomala nel sistema formativo nazionale. Con altrettanta lucidità evidenzia
altri nodi nevralgici del sistema così come storicamente si è venuto
configurando, e quelli conseguenti alla legge di riforma. A partire, per questi
ultimi, dall’isomorfismo
con il sistema universitario, dalle questioni inestricabili del reclutamento,
dall’influenza decisiva di impostazioni sindacali corporative su gran parte del
corpo docente.
L’opera si porge al
lettore con scrupolo metodologico, dichiarandosi “figlia” delle rilevazioni
condotte attraverso l'indagine, e pertanto suscettibile di essere una
fra le possibili ricostruzioni del campo preso in esame. Correttamente pertanto
si offre alla riflessione e alla discussione ulteriore, e questo ci offre il
destro per inserire alcune osservazioni e alcuni interrogativi.
L’analisi delle logiche interne al “vecchio
ordinamento” è ampia e acuta, a tratti si direbbe impietosa. Eppure, a lettura
ultimata, si direbbe che nel bilancio finale del dopo-riforma l’autrice lasci
trasparire una sorta di empatia con l’antico ruolo sociale dei Conservatori, e
con le logiche didattiche ad esso collegate, che pure ella contestualizza
storicamente. Viene così ad essere in qualche modo messo in secondo piano il
profondo disagio che molti docenti (anche dell’ambito “classico”) hanno vissuto,
sopratutto nell’ultimo scorcio del XX secolo, nell’operare all’interno di quelle
logiche. Disagio di fronte alla responsabilità eccessiva di essere l’unico
riferimento nello sviluppo professionale di un giovane per un lunghissimo
periodo. Disagio nel trovarsi ad operare in situazioni didattiche –
l’insegnamento a giovanissimi – per le quali non avevano ricevuto formazione
alcuna. Disagio per l’insufficienza della “monocultura dello strumento” a
formare professionisti musicalmente consapevoli. E di conseguenza il forte
bisogno di un cambiamento radicale che quelle stesse componenti della docenza
hanno espresso.
In questo senso,
laddove si è voluto e saputo cogliere le opportunità aperte dalla riforma, anche
nei corsi “classici” si sono potute realizzare innovazioni significative. Per
esempio la scomposizione delle competenze dell’insegnamento dello strumento,
recuperando (laddove si è saputo fare) competenze strumentali diverse da quella
esclusiva dell’esecuzione di un repertorio lungamente e ripetitivamente
studiato. E di conseguenza l’abbandono dell’unicità del docente di strumento,
con tutti i limiti che essa comportava. Si è potuto riportare la pratica
musicale d’insieme alla medesima dignità disciplinare della prassi solistica,
come appariva ormai ineludibile. Si è potuto inserire nel curricolo una presenza
significativa di elementi di composizione e di analisi, la cui assenza nel
curricolo tradizionale spingeva molti studenti alla doppia frequenza di
strumento e di composizione. Si sono potuti inserire nuovi indirizzi strumentali
più vicini al mercato del lavoro, come quello di pianista collaboratore. Insomma non è così certo che, nella riforma,
tutti
i docenti di strumento “classico” abbiano sofferto.
Un altro scenario che si presterebbe a ulteriore riflessione è quello
dell’allargamento dell’offerta formativa a generi diversi da quello definito
classico, prima considerato l’unico “legittimante” studi musicali professionali.
Casula sottolinea la migliore sistemazione che questi generi extra-classici
hanno trovato nella riforma. Rimane tuttavia il bisogno di una riflessione su
come questi ambiti si siano disposti nel Conservatorio, visto che sono stati
organizzati in una logica – quella dell’articolazione per linguaggi anziché per
strumento – diversa da quella di tutti gli altri corsi. L’organizzazione del
settore “classico” chiede infatti allo strumentista di avere competenze
trasversali attraverso tutti gli stili. Si sono invece creati dei “corpi separati” che tendono a perpetuare la separazione
fra musicista “classico” (nel senso del canone colto, anche contemporaneo) e
musicista “moderno” (nel senso delle musiche di più largo consumo) anziché mirare a
una diffusione e a una trasfusione delle competenze in un’unica figura
accademicamente credibile e professionalmente polivalente.
Qualche riflessione
ulteriore potrebbe essere indotta dal concetto, ripetutamente espresso, che la
riforma sia stata influenzata e portata a esito legislativo
solo
dalla pressione sindacale. La legge 508 e la gemella 509 (riforma
dell’Università) sono nate subito dopo la formalizzazione del “Progetto di
Bologna”, cioè di un vincolo derivante da trattati internazionali cui l’Italia
aveva aderito. Non escluderei che l’efficacia di tale vincolo abbia avuto il suo
ruolo nel portare in porto la legge.
Infine vorrei
citare un altro tipo di isomorfismo
con cui quotidianamente nei Conservatori si fanno i conti. La “resilienza
istituzionale del vecchio ordinamento”, cui giustamente l’autrice dedica ampio
rilievo, è profondamente interiorizzata nella quota (ampia) di docenti che sono
rimasti tenacemente ostili alla riforma. Si genera così un paradossale,
quotidiano esercizio di “omologazione” del nuovo ordinamento al vecchio,
ove si cerca continuamente di tradurre competenze, livelli e perfino terminologie
del nuovo in quelli del vecchio, per superare con questi espedienti lo
spaesamento che molti ancora avvertono nel Conservatorio dopo la riforma.
Ovvero, in altre parole: cambiare tutto (nominalmente) per cambiare il meno
possibile.
____________
Clementina Casula,
Diventare
musicista, indagine sociologica sui Conservatori di musica in Italia,
Mantova, Universitas Studiorum, 2018, 346 pp.;
€ 24,00
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(*) Va precisato che la legge
312/1980, coerentemente con quanto previsto in altri settori come la sanità,
vieta il cumulo di rapporti di lavoro dipendente a tempo indeterminato, prima
consentito fra Conservatori ed enti di produzione musicale a finanziamento
statale; ma autorizza per i docenti di Conservatorio contratti professionali a
tempo determinato con i medesimi enti.
ottobre 2018
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