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ASSOCIAZIONE PER L'ABOLIZIONE DEL SOLFEGGIO PARLATO
INTERVENTI |
sei in:
INTERVENTI>LA CULTURA
DELL'AUTONOMIA |
Troppa politica per nessuna politica
riflessioni sullo stato attuale della riforma degli studi
musicali
di
Paolo Rotili *
Sono ormai passati
più di dieci anni dall’approvazione della legge 508 e ancora non sono
stati approvati molti dei suoi regolamenti attuativi. Un percorso di
trasformazione infinito, defatigante, contraddittorio. Più che una
riforma degli studi artistici, fino ad oggi si è configurata come la
distruzione, pezzo per pezzo, del passato, senza che si possa ancora
comprendere quale potrà essere l’assetto futuro delle nostre
istituzioni, il nostro personale e quello di chi voglia ancora studiare
musica.
Nell’interessante e per molti versi condivisibile
intervento di Troncon su questo sito, è auspicato un
monitoraggio delle esperienze sperimentali degli ultimi anni, nate e
gestite in autonomia scolastica dalle singole istituzioni. Un
monitoraggio che, proprio per superare le difficoltà che rallentano
l’attuazione della riforma, dovrebbe permettere di individuare il
modello o i modelli da adottare sull’intero territorio nazionale.
Troncon auspica, cioè, una volontà di decisione politica basata su una
seria riflessione sul problema… Troncon auspica quello che da dieci anni
non abbiamo mai avuto!
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10 anni
dalla 508, e mancano ancora molti pezzi.
Non si è fatto un serio monitoraggio della fase sperimentale. |
La
stessa autonomia scolastica è stata intesa come lo strumento per la
non-attuazione di uno screening che verificasse prima
dell’applicazione della legge quale conservatorio poteva essere
abilitato alla trasformazione in istituzione di alta cultura, come del
resto recitava proprio la 508. E’ stato lo strumento della
non-decisione, del rinvio a data da destinarsi utile a veicolare l’idea
che tutte le istituzioni e dunque tutti i docenti avrebbero partecipato
alla “grande marcia” verso il livello universitario.
Questo obiettivo erga omnes (ma più simile a todos caballeros),
promesso soprattutto da un sindacato, ma con la colpevole insipienza
degli altri, ha ovviamente fatto molti proseliti, condannando
qualsiasi ragionevole scelta riformatrice al ricatto del consenso.
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Rinuncia alla selezione fra le istituzioni:
todos caballeros. |
Sono anni (e non solo
nel nostro settore) che all’invasione pervasiva della politica nelle
scelte di merito corrisponde una contemporanea assenza di politiche
strategiche di merito. In questi anni la politica non si è configurata
come la capacità di gestire la res publica secondo principi
generali al servizio del cittadino, ma come una corsa alla ricerca del
maggior consenso comunque da raggiungersi. Potremmo dire, tanti politici
per nessuna politica.
Come aspettarsi ora
una scelta di merito? Il rischio più serio è che con l’attuale
congiuntura di crisi si affermi la legge del più forte, facendo piazza
pulita dei ‘pesi’ economici, senza tanti complimenti.
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In
mancanza di una politica, la selezione fra le istituzioni sarà
abbandonata alle difficoltà economiche. |
Allora facciamo
qualche riflessione politica, noi che non siamo politici. L’obiettivo
principale della riforma era la confrontabilità del titolo di studio
italiano con quello degli altri paesi europei secondo le linee del
“processo di Bologna”.
Di recente si sente
parlare molto di abolizione del titolo di studio: anche tra eminenti
personalità della sinistra, che tradizionalmente è più favorevole al
mantenimento. [sull’argomento vedi in questo sito
"Il mito del valore legale della laurea", di
Civitarese Matteucci e Gardini,
tratto da nelMerito.com]
Si afferma che in
fondo importante non è tanto il titolo che si possiede, ma dove e con
chi si è studiato. In un quadro di autonomia e di conseguente
de-regolazione e/o decentramento, la singola istituzione, il suo
prestigio, diviene garanzia di qualità. In questo modo l’istituzione
dotata di autonomia si sostituisce alle garanzie che lo Stato si dà
(dava?) attraverso tutta una serie di regole che cercano una omogeneità
sull’intero territorio nazionale (contenuti didattici comuni, regole per
la selezione del personale, contratto di lavoro nazionale, ecc.).
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Si
riapre la disputa sul valore legale del titolo di studio. |
Chi è a favore
dell’abolizione del titolo di studio sembra dire: visto che non si
riesce ad avere un consenso su come deve essere organizzato lo Stato, un
livello qualitativo condiviso, allora eliminiamo il problema, ognuno si
fa il suo regolamento e…vinca il migliore. Nelle nostre società il
migliore è sempre colui che ha più possibilità economiche, vive in un
territorio al riparo da contrasti sociali, appartiene già ad una classe
culturalmente elevata, ecc. L’abolizione del valore legale del titolo
di studio demanda al mercato la regolazione dei flussi di formazione, in
quanto le migliori istituzioni avranno anche le rette più alte, rendendo
molto più difficile la possibilità di un riscatto sociale della persona
attraverso il miglioramento del proprio livello culturale.
Occorre dunque tenere
ben presente che la questione del valore legale del titolo è
strettamente connessa a quella delle pari opportunità che lo Stato è
chiamato ad assicurare ai cittadini.
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Il valore legale del titolo di studio tutela i più deboli |
Più specificamente,
nell’attuale autonomia scolastica rileviamo un altro punto di criticità:
la mancanza di quello che potremmo chiamare il rischio d’impresa.
L’autonomia vera prevede la proprietà dell’istituzione: se sbagli
chiudi. Cosa rischiano gli attuali rettori, direttori, consiglieri? Non
sono proprietari dell'impresa (nessuno lo è), ma su di loro è scaricato
l’oneroso compito di fare da tramite tra lo Stato e il cittadino-utente.
Gli eventuali errori sono addebitati come responsabilità personale di
cui devono rispondere in solido.
In più sono eletti, cioè non sufficientemente "forti" dal punto di vista
della gerarchia del comando.
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Contraddizioni tra la logica privatistica e la non-proprietà
dell'impresa |
Come si comportano
allora? Cercano il consenso per essere eletti e poi ‘galleggiano’,
cercando di essere inattaccabili nelle procedure formali. Obbedendo alle
direttive superiori, magari optando sempre per una distribuzione ‘a
pioggia’ per mantenere consenso, estendere la non-scelta… E senza soldi,
visto che non ce ne sono. Preoccupato di mantenere il consenso, se va
bene, il dirigente diventa anche lui un politico senza politica. Se va
male, la situazione scatena ‘guerre per bande’, guerre di gruppi in
perenne conflitto. [sull'argomento vedi in questo sito
"Tanto
tuonò che piovve", di Rosario Nicoletti tratto da
noiseFromAmerika.org]
Non sempre è così?
Sicuramente, ma come lo capiamo, come ci difendiamo dalla corsa al
ribasso pur di avere iscritti, dalla preoccupazione di soddisfare ad
ogni costo le esigenze dello studente-utente? Come scegliere tra la
qualità e il sempre maggior numero possibile di studenti pagatori di
rette?
Perchè, è evidente,
le due cose non vanno sempre d’accordo.
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La necessità del consenso induce chi dirige a galleggiare senza
scegliere. |
Altro nodo di
politica scolastica che non è stato sciolto - a causa delle dirette
implicazioni sull’occupazione e la retribuzione del personale docente -
è la strutturazione del percorso didattico in fasce o in struttura
verticale.
La riforma è
chiaramente indirizzata per un percorso a fasce, corrispondenti,
oltretutto, a fasce di età. Secondo la 508, a regime i conservatori si
dovrebbero occupare solo della fascia superiore (trienni e bienni). I
neonati licei musicali dovrebbero essere l’anello mancante tra le medie
ad indirizzo e i conservatori trasformati.
E’ evidente che
l’esiguo numero di studenti dei corsi superiori già oggi è del tutto
insufficiente ad occupare, nella sola fascia superiore degli studi,
tutto l’attuale personale docente dei conservatori. In futuro
sarà ancora peggio grazie all’incompatibilità con gli studi di pari
livello universitario.
Per ovviare a questo problema alcuni chiedono (e giustamente) di rendere
stabile l’attivazione dei “corsi di base” nei conservatori, previsti
del resto proprio dalla legge 508, almeno nella fase transitoria (magari
anche di corsi per anziani, di formazione ricorrente, massaie,
diversamente abili, ecc.: basta che ci siano iscritti…).
In questo modo, in
contrasto con lo spirito della riforma, è reintrodotto un percorso di
studi di tipo verticale, dall’inizio al termine della formazione dello
studente, percorso che diventa così parallelo (in convenzione o
meno) al percorso che va dalle medie ad indirizzo all’università,
passando per il liceo musicale. Pur essendo personalmente favorevole a
questa opzione, anche per motivi squisitamente didattici, mi chiedo:
perché si dovrebbe chiedere un aumento di stipendio per fare quello che
abbiamo sempre fatto? Perchè dovremmo chiedere di più se siamo tornati
all’idea dell’atipicità degli studi artistici?
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Curricolo verticale o fasce distinte? Nonostante la 508, non si è ancora
scelto. |
Delle due l’una: o si
cerca di mantenere gli attuali livelli di occupazione, indirizzando la
riforma verso il mantenimento del percorso verticale, o si pretende
un considerevole aumento retributivo, ma allora non sarà per
tutti e bisognerà operare una selezione del personale tramite concorsi.
Entrambe le cose non
si possono avere. E chi da anni cerca, in buona o cattiva fede, di
non scegliere tra queste due opzioni è il vero responsabile della
paralisi attuale.
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Contraddizione insanabile tra mantenimento livelli
occupazionali e cospicui aumenti retributivi per tutti |
Le soluzioni
politiche sono dunque poche:
-
costituzione di
poche accademie secondo i dettami della 508, selezionando per
concorso il personale docente e contestuale mantenimento e/o
ampliamento del numero degli attuali conservatori che si
occuperebbero della formazione professionalizzante sin dai primi
anni sino ai livelli ante 508.
oppure
-
accorpamento su
base regionale delle diverse sedi (a tutela degli attuali livelli di
occupazione), gestione in autonomia, mobilità docente, sedi
decentrate e contratti aggiuntivi (come accade già adesso) come
incremento stipendiale a chi insegna nella fascia superiore.
Nel primo caso, i
pochi docenti selezionati dal concorso avrebbero stipendi in linea con
gli standard universitari, il numero di diplomati sarebbe congruo con
l’attuale richiesta del mercato del lavoro.
Nel secondo caso gli
stipendi rimarrebbero gli stessi, con eventuali contratti aggiuntivi. La
soluzione di un accorpamento guidato a livello regionale delle varie
sedi, avrebbe il pregio di creare una maggiore elasticità del sistema
rispetto all’utilizzazione del personale docente, in questo modo si
dovrebbe ridurre al minimo il problema del soprannumero e accompagnare
la transizione in modo più dolce. Il secondo caso è del resto
compatibile con la prima opzione.
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2
soluzioni possibili |
La riforma poteva
essere fatta in altro modo, seguendo il modello Mascagni (orrore,
orrore!!), integrando finalmente gli studi artistici al percorso
formativo nazionale, ma ormai è tardi.
Il rischio che si
corre oggi è lo stabilizzarsi della non-scelta, rinviando lo
scioglimento del nodo occupazione/reddito che abbiamo cercato di
delineare e che è il vero problema che paralizza la riforma, ad una
‘selezione naturale’ delle sedi (ma con tutto il personale docente
annesso!). Ci potrebbe essere la tentazione di lasciar marcire la
situazione sino a chiudere o accorpare le sedi piccole che non abbiano
più il numero sufficiente di studenti, i soldi da spendere, ecc.,
spostando il personale che non è ancora andato in pensione nelle sedi
viciniori (ammesso che ve ne siano) o spostandolo ad altra
amministrazione dello Stato. Il processo di accorpamento e/o
soppressione di sedi sarebbe lungo, ingovernato dal punto di vista della
qualità della docenza e del servizio, casuale nella sua distribuzione
territoriale. Sarebbe profondamente ingiusto per chi, al di là dei suoi
meriti o demeriti, dovrebbe semplicemente seguire il destino
dell’istituzione di titolarità. Ingiusto per gli studenti che si
troverebbero a studiare in simili condizioni di precarietà.
Il rischio è che
nessuno si prenda la responsabilità di una scelta politica che premi
innanzitutto la qualità del sistema al di sopra degli interessi di
parte, premi lo Stato. Uno Stato efficiente è il solo che preserverebbe
le istituzioni dal progressivo deterioramento e darebbe alle future
generazioni un personale docente selezionato e una scuola degna di
questo nome. Purtroppo crediamo che sino a quando la politica (intendendo
non solo le scelte operate dai politici, ma anche dai sindacati, dalle
associazioni di categoria, dai funzionari ministeriali, ecc.) sarà
improntata alla ricerca del massimo consenso, subendo tra l’altro il
ricatto del cittadino-utente e del docente-elettore, senza che sappia o
possa indirizzare l’opinione pubblica verso interessi generali, la
non-scelta sarà sempre la più probabile, continuando nella sua
pervasiva assenza di politica.
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La
“selezione naturale fra istituzioni":
la soluzione più ingiusta per professori e studenti. |
Di qui, per furbizia
o per impotenza, l’affermarsi in questi anni dell’idea che per superare
l’inefficienza dello Stato sia utile decentrare le scelte politiche ed
espandere i poteri delle amministrazioni locali attraverso l’autonomia
amministrativa, didattica, ecc. Ma questa autonomia (in questo caso
scolastica) nel contesto di un tessuto sociale non attento agli
interessi generali del cittadino, accrescerebbe le differenze sul
territorio nazionale, aumentando l’opacità dei criteri di assunzione del
personale, del reperimento delle risorse, ecc., consegnando buona parte
del Paese ad un lungo destino di degrado.
luglio 2009
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* compositore, docente al
Conservatorio di Latina |
L'autonomia come alibi |
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