Per una storia critica
dell'insegnamento della musica in Italia:
una conversazione con Carlo Delfrati
di Sergio Lattes
Carlo
Delfrati, decano dell'educazione musicale italiana, fondatore della Siem, autore
di oltre una ventina fra libri e manuali e di una nutrita serie di articoli,
titolare di seminari e corsi per la formazione dei docenti, sta per dare alle
stampe un nuovo libro: una Storia critica dell'insegnamento della musica in
Italia. Si dice “alle stampe” ma in realtà
sarà un e-book, edito da Tombolini, un editore nuovo che investe
nell'elettronica. Solo dopo, mi dice, si vedrà se stamparlo su carta. E dandomi
appuntamento per questa chiacchierata mi anticipa il titolo del libro
sottolineando: storia critica.
Evidentemente il punto è questo.
Parliamo dunque di un libro che non è ancora
uscito, e che io non conosco se non nell'indice. Ma è chiaro subito che in
questo libro che sta per uscire si riflette il personaggio Delfrati, la sua
storia intellettuale, il suo atteggiamento nei confronti di un mondo che conosce
molto, molto bene. Parlando del libro, Delfrati parla di Delfrati e ne racconta
le idee.
Mi riceve in uno studio che è un appartamento
adibito esclusivamente a biblioteca, ovviamente tappezzato di libri: per una
certa austerità ricorda quasi una biblioteca pubblica piuttosto che una
biblioteca di casa. E' chiaramente il suo regno. E lui ci si muove – con
insospettata agilità per un signore ormai di una certa età – attingendo
continuamente agli scaffali, intanto che parla e che la conversazione lo porta a
ricordare libri, spesso rari, che ogni volta cerca di slancio e mostra con
l'orgoglio del collezionista.
Che questo nuovo libro in arrivo sia una storia
critica lo si avverte già dai
titoli dei capitoli principali, che ho ricevuto in anticipo: “Un ponte tra
educazione (di tutti) e istruzione (specialistica)”; “Il decennio d'oro: i
terribili programmi della scuola dell'obbligo”; “Dall'altare alla polvere,
risultato: musica bocciata”; “Isole nella palude, le buone alternative esistono
ma non vengono ascoltate”: per citarne solo alcuni.
Per cominciare dunque gli chiedo perché questa
Storia critica. Delfrati risponde
che la storia, la storia in generale, è la sua seconda passione intellettuale.
La storia come indagine sulle radici, sul perché del presente. E in questo caso
l'oggetto della storia è l'insegnamento della musica, che delle sue passioni
intellettuali è la prima: “Questo piccolo buco, nel mare magnum della musica e
della musicologia, in cui mi sono infilato una volta cinquant'anni fa, e nel
quale sono stato bene, mi ci sono divertito”. Dunque è chiaro che questa
Storia riflette anche la sua storia
intellettuale.
Veniamo quindi al primo dei titoli. Il “ponte”
fra educazione musicale e istruzione specialistica. Appare subito chiaro che è
un'idea-chiave della sua visione. Prima di parlare delle istituzioni deputate (e
della loro separatezza) Delfrati parte da un livello più profondo. Cita
l'epistemologia di Brunner per dire che non c'è differenza, se non di grado e di
spessore, fra le piccole scoperte “scientifiche” che fa un bambino alla scoperta
del mondo, e quelle di uno scienziato sulla frontiera della ricerca. E dice che
lui stesso, allo stesso modo, pensa che non ci sia differenza - se non di grado
e di densità - fra la composizione di un bambino e quella di un autorevole
compositore contemporaneo. Questa è la radice della continuità, del “ponte” fra
educazione e istruzione musicali: in nuce,
sono la stessa cosa. E questo bisogna ricordarsi quando, nel mondo dei
Conservatori, si lamenta la cattiva educazione musicale nella scuola generale:
si dimentica che a scriverne norme e programmi sono stati ogni volta chiamati i
musicisti di professione, quelli appunto “dei Conservatori”. Se le maestre
elementari, che un tempo studiavano musica per 7/8 anni, poi non sanno fare
musica con i bambini, dipende da quel che di musica gli hanno fatto studiare
quei musicisti che furono chiamati a stendere i contenuti della loro formazione
musicale. Musicisti eccellenti magari, ma che non avevano idea di cosa fosse
trasmettere contenuti utilizzabili nell'insegnamento di base.
Ecco la totale (e paradossale) separatezza fra
educazione e istruzione: gli insegnanti della scuola vedono il Conservatorio
come un pianeta lontano, se non come un oggetto misterioso; il Conservatorio
“snobba” la scuola per la povertà del suo operare musicale. Ecco dove bisogna
costruire ponti.
Delfrati ricorda che la riforma Gentile nel
1923 introdusse uno spazio non piccolo per la musica, sia nella scuola
dell'obbligo che nella magistrale. Quello che fu negativo, e perfino
controproducente, fu ciò di cui questo spazio fu “riempito”: lui lo riassume in
due parole: nozionismo e
solfeggismo. Dopo il primo periodo più o
meno positivo, l'allontanamento e il fastidio verso questi contenuti furono tali
che dopo la guerra rischiarono di prender piede proposte volte a sopprimere del
tutto la presenza della musica nella scuola dell'obbligo. Nel 1959 fu sul punto
di essere approvata una riforma voluta dal ministro Medici – poi fortunatamente
caduta insieme con il governo – che cassava del tutto quel che di musica era
stato introdotto nel 1923.
E ricorda invece i semi di una diversa
pedagogia musicale che pure arrivarono in Italia, anche se non furono accolti
nella scuola italiana. Per esempio, l'insegnamento di Jacques Dalcroze giunse da
noi abbastanza presto attraverso Luigi Ernesto Ferraria, musicista lungimirante
oggi pressochè dimenticato. Che invitò Dalcroze per alcune lezioni dimostrative
del suo metodo già nel 1908, e poi ancora nel 1926. Ferraria, oltre ad aprire
una sua scuola di Ginnastica ritmica a Milano secondo gli stessi principi,
riuscì a far istituire da Giuseppe Gallignani, direttore del Conservatorio di
Milano, un corso sul metodo Dalcroze. Che fu immediatamente abolito da Pizzetti
appena si insediò come successore di Gallignani (1924).
Con Pizzetti l'excursus storico che Delfrati mi
sta facendo attraverso l'indice della sua Storia
prossima ad uscire,
tocca uno dei suoi punti caldi. Nonostante il
suo modo pacato e schivo di rivolgersi all'interlocutore, qui Delfrati non
dissimula la sua passione e la sua indignazione. Dopo aver precisato di non
voler parlare di Pizzetti compositore, che lo interessa poco, indica in primo
luogo in Pizzetti il musicista compromesso con il regime oltre ogni pur
discutibile bisogno di compromesso. Ma più ancora tiene a sottolineare che egli
fu il vero regista dei programmi dei Conservatori del 1930, quelli che sono la
“bestia nera” di Delfrati. E qui si tocca un altro dei punti-chiave della sua
visione critica dell'insegnamento
musicale italiano.
La vera,
fondamentale accusa che Delfrati muove alla concezione di questi programmi è
quella di aver isolato, nella formazione dello strumentista/cantante, un solo
aspetto a spese di tutti gli altri: quello del virtuosismo solistico. Come se
non esistessero altre funzioni sociali del musicista verso le quali indirizzare
la formazione. Come se la società avesse bisogno solo di interpreti virtuosi
(certo anche di quelli: ma quanti?) e non di cento altre figure professionali di
musicista. Come se, per fare il caso del pianoforte – visto che poi in
maggioranza gli insegnanti nelle scuole sono diplomati in pianoforte – tutte le
funzioni musicali dello strumento si riducessero all'esecuzione di un certo
repertorio solistico e virtuosistico. Come se non esistessero la straordinaria
capacità del pianoforte di ricreare rapidamente e utilmente la sonorità di
musiche non pianistiche, e poi la sterminata letteratura di musica d'insieme, le
infinite possibilità di accompagnamento, l'improvvisazione, la lettura a prima
vista e quant'altro.
Questa
impostazione è quella che Delfrati chiama “monocoltura”, contrapponendola alla “multicoltura”
che ha caratterizzato il musicista in tutta l'epoca classica – suonare più
strumenti, cantare, comporre. Ma il suo non è certo il vagheggiamento di un
impossibile ritorno all'indietro nella storia. Il discorso ci porta dunque alla
domanda se e quanto la riforma del 1999 abbia cambiato questo stato di cose. E,
anche, se il confronto internazionale non sempre sfavorevole ai diplomati
italiani, e l'alto tasso di studenti stranieri in Italia, autorizzino un
giudizio meno critico verso il Conservatorio di oggi.
Delfrati
si mostra qui in tutta la sua onestà intellettuale. La fedeltà alle proprie idee
non gli impedisce di mostrarsi aperto e curioso nei confronti di quel poco che,
essendo io andato in pensione un po' dopo di lui, sono in grado di riferire, io
a lui, sui Conservatori dopo la riforma. Non gli impedisce di essere pronto a
cambiare idee e giudizi, se dati e fonti sono attendibili, se l'esame dei nuovi
elementi è comunque esame critico. La ricerca, dice, procede anche attraverso la
confutazione e il superamento delle idee, e non bisogna averne timore. Nota,
giustamente, che l'alto tasso di studenti stranieri nei Conservatori – del quale
non sapeva – andrebbe raffrontato non solo con il tasso di studenti stranieri
nelle università italiane (raffronto che spesso è indicato come il fiore
all'occhiello dei Conservatori italiani) ma anche con quello degli studenti di
musica stranieri nei Conservatori degli altri paesi europei. E ovviamente va
considerata anche la provenienza degli studenti stranieri: per esempio, aggiungo
io, il tasso di studenti italiani in paesi europei è in equilibrio con quello
degli studenti degli altri paesi europei in Italia? E se, oltre che di studenti,
parlassimo di diplomati come starebbero le cose?
La
conversazione si avvia alla conclusione in un confronto proficuo e appassionante
su alcune questioni tipiche dell'insegnamento “specialistico”. La riforma, gli
faccio osservare, ha inciso certamente sull'impianto disciplinare. Il
virtuosismo “puro”, da lui giustamente criticato, è stato corretto
dall'inserimento di discipline che introducono altri aspetti della prassi, a
cominciare dalla musica d'insieme. Le discipline analitiche e compositive, e
quelle storiche, sono spesso parte integrante del curricolo dello strumentista.
Il curricolo del pianista, in particolare, è piuttosto cambiato. Ed è stato
introdotto il biennio per pianista accompagnatore, o collaboratore.
Ma su un
altro punto, che gli sottopongo e che è nodale, trovo Delfrati d'accordo: al
cento per cento, mi dice. La riforma non ha inciso – e non poteva farlo per
legge, senza una mobilitazione intellettuale che non c'è stata – sulla
didattica dello strumento nei Conservatori: sul modo in cui concretamente
s'insegna. Sul vivo di quella relazione del tutto speciale che si crea fra un
docente e un discente, a tu per tu con uno strumento musicale, in un'aula dove
spesso non c'è alcun supporto didattico oltre allo strumento stesso. Una
relazione che, nella nostra tradizione didattica, si fonda sulla
contrapposizione estrema fra “sapere” e “saper fare”, ripudiando il primo e
privilegiando esclusivamente il secondo. E perciò si attua in un rapporto “di
bottega”, dove si impara per mimesi vedendo fare, senza possibilità di
trasmissione verbale e quindi culturale del sapere, in una relazione
continuamente esposta al rischio della distorsione che la trasforma in un
rapporto proprietario (“l'allievo è mio”). Una relazione in cui la
“scuola”, cioè la tradizione didattica, non ha quindi altra via per esplicarsi
che la trasmissione diretta e personale da maestro ad allievo.
Certo
molto di tutto questo è peculiare dell'insegnamento musicale, e sarebbe assurdo
perderlo, specie ai livelli alti e specialistici dell'apprendimento
virtuosistico. Ma non si vede perchè ai livelli di base dell'insegnamento,
quelli che riguardano la grande maggioranza dei docenti e degli allievi, non
possa avere spazio - come altrove avviene - una vera didattica dello strumento,
con la sua cultura, la sua bibliografia, le sue riviste specializzate, i suoi
strumenti di formazione e di aggiornamento, la sua possibilità di circolare come
ogni strumento del sapere, di essere trasmessa circolarmente e non solo da
individuo a individuo.
*****
Carlo
Delfrati al momento della nostra conversazione è in partenza per la Cina, dove è
invitato a tenere alcune lezioni all'Università didattica di Pechino (Beijing
Normal University). E nonostante la sua indiscussa autorevolezza, senza timore
alcuno si confessa pieno di dubbi e di incertezze su cosa aspettarsi e su cosa
dovrà fare. Mi faccio promettere un racconto al suo ritorno.
Ottobre 2016

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