j

 HOME PAGE
 
 CHI E PERCHE'
 
 INTERVENTI
 
 DOCUMENTI
         - noi e l'Europa
         - dall'Italia
         - dalla stampa
         - oltre la musica
            (documenti e articoli
             d'interesse generale)
         - appuntamenti
 
 DIDATTICA
 
 RISORSE
 
 ARCHIVIO
 
 MAPPA

 

 
ASSOCIAZIONE PER L'ABOLIZIONE DEL SOLFEGGIO PARLATO
L'alta formazione musicale in Italia

INTERVENTI

 

Musicisti, amatori, pubblico
Conversazione con Nicola Campogrande, direttore artistico di "MITO"

di Luigi Marzola


Cos'è un musicista oggi, chi è, cosa fa.


Non penso che il ruolo del musicista, nel tempo, sia cambiato molto. Personalmente, mi sento erede della storia che frequento, dei concerti che ascolto, dei musicisti che ho amato e che amo, e che studio. Siamo parte di un domino al quale ciascuno aggiunge la sua propria tessera. Mi sembra che tutte le volte che si è tentato di “ribaltare il tavolo”, di dover fare in modo radicalmente diverso, si sono fatti dei danni. Alla musica, e alla nostra relazione positiva con la musica.

Al contrario, penso che il gioco del compositore consista nell'inventare all'interno di un contesto. Mi sono sentito molto confortato da quanto diceva in un'intervista Renzo Piano. Parlava delle sue “passeggiate” nei luoghi in cui gli si chiede di operare: che si tratti di costruire, di ristrutturare, di ripensare urbanisticamente una zona, lui come prima cosa ci va “a fare due passi”. Ha bisogno che il quartiere gli “entri” nelle gambe, negli occhi. Che la storia di quel posto diventi la sua storia. Solo dopo si sente d'intervenire, e pure i suoi interventi sono uno degli emblemi della modernità. Non si tratta dunque di fare un falso storico, ma di inserirsi in un contesto.

Il mio modo di fare musica si riferisce sempre a questa pratica: una prosecuzione del passato, e un brivido di contemporaneità. Non m'interessa, per intenderci, la filologia estrema che mi costringe a condizioni d'ascolto che non mi piacciono; almeno finché non apportino un certo “tasso” di fascino, di novità, di suggestione. Quello che mi piace nei colleghi – che siano compositori o interpreti – è l'equilibrio – quando lo si raggiunge – tra un tasso di novità e la conoscenza del passato. Qualcosa che non ti porta a smarrirti, ti offre dei punti di riferimento, ai quali ci si appoggia per fare il nuovo.


Dunque sei portato ad amare il “Bach di...”, cioè una singola e specifica interpretazione?


Sì e no. So che esistono grandi passioni, amici che ricordano ogni dettaglio di una singola esecuzione. Per me non è così, i ricordi delle diverse esecuzioni di un brano che conosco bene si elidono, ma poi quando sono in sala e ascolto, mi rendo conto molto bene se quella esecuzione mi sta emozionando, o meno. E' difficile che io vada ad ascoltare un interprete “a prescindere”. Mi piace invece andare ad ascoltare, e magari stupirmi perché un musicista da cui non me lo sarei aspettato mi dà un brivido che magari non mi dà un “grande nome”.


Una volta la programmazione era costruita quasi esclusivamente sugli interpreti, le musiche cadevano quasi in secondo piano. Oggi il quadro è molto cambiato e, salvo alcuni mostri sacri, la qualità della proposta ha molto più peso. Non a caso i concerti sono sempre più spesso tematizzati. Questo comporta secondo te una standardizzazione dell'interpretazione?


C'è certamente una sorta di globalizzazione: il gioco è uno solo, si potrebbe dire, come nel calcio. Però esistono alcune esperienze specifiche. Per esempio l'orchestra di Mario Brunello (Orchestra d'archi italiana), dove c'è una forte caratterizzazione del modo di suonare. Tutti i “Brunelliner”, come si chiamano affettuosamente tra gli addetti ai lavori, suonano nello stesso modo. Ma casi come questo, in cui una scuola riesce a espandersi fino a permeare tutto un ensemble, sono rari.


Ci sono delle “mode” nell'interpretazione?


Le mode ovviamente ci sono. Siamo stati travolti dalla filologia, e peraltro penso che sia stato salutare. Certo c'è stata una fase “dura”, nella quale sembrava esclusa ogni intenzione espressiva. Oggi questo stadio è superato, e si torna a trovare espressività, pur togliendo gli eccessi di vibrato e quant'altro.

Anche nella pratica della direzione artistica, quando si tratta di fare delle scelte gli abbinamenti codificati, “obbligatori” fra un interprete e un certo tipo di repertorio, raramente mi convincono. Alcuni colleghi ragionano in questi termini; io preferisco cercare di rimescolare le carte. Il risultato talvolta è straordinario. Una regola aurea ce l'ho, e mi pare funzioni sempre: chi sa lavorare sulla musica rinascimentale e barocca sa lavorare su tutto il resto del repertorio.


Cosa pensi della formazione nei Conservatori? E' coerente con quello che succede “fuori”?


Ho l'impressione di sì, anche se i Conservatori non li frequento da molto tempo e non li conosco più nel dettaglio. Ma quando parlo con colleghi giovani o appena diplomati trovo gente che si fa delle domande interessanti. Le stesse che mi pongo io, ma loro hanno il vantaggio di farlo da giovani… Parlo della formulazione dei programmi, della mescolanza dei repertori, della ricerca dell'emozione. Devo dire che in questo senso la crisi, la crisi generale che abbiamo vissuto, non è stata solo un male. Ci ha costretto a scremare, a scegliere, a trovare valore. Non è un caso che abbiano tanto successo i festival – dico tutti: siano essi dedicati alla mente, alla filosofia, ai libri, a qualunque cosa faccia ritrovare insieme la gente, di fronte a qualcosa di emozionante. C'è chi ha fatto delle statistiche: per esempio è risultato che negli Stati Uniti la crisi ha coinciso con un incremento nella vendita dei biglietti di musica classica.

Tornando ai musicisti che escono dal Conservatorio, ci sono quelli capaci di domandarsi che mestiere andranno a fare, come lo devono fare, perché. E ci sono quelli che si domandano solo quale sia la mail del direttore artistico cui andare a elemosinare un concerto. O quelli – allievi probabilmente di insegnanti che “si sono seduti” molto tempo fa – che non sanno nulla di ciò che è stato scritto negli ultimi dieci o vent'anni. O che magari credono che il vero problema sia quello di “abituare le masse alla dodecafonia”, un secolo dopo, e che questo debba immancabilmente avvenire... E questo modo di ragionare, purtroppo, non può non avere origine nella scuola.

Vengo poi alle nuove discipline che ogni tanto scopro – l'editoria musicale per esempio; tutte cose meravigliose, che ai nostri tempi abbiamo dovuto imparare sul campo e con fatica. Bene, anche all'Università vedo studenti che hanno a disposizione, già pronte, queste competenze che dovrebbero guidare la loro carriera, e spesso hanno invece una crisi di motivazione: è tutto lì a disposizione, non c'è nulla da scoprire. E ha poco a che fare con la curiosità, la sete di conoscenza, la passione che ci animavano quando ci capitava di incontrare un vero professionista, di qualunque specialità: una persona da cui imparare, da scoprire, interrogare, seguire. Da cui “rubare” segreti del mestiere. Oggi è tutto “offerto”, tutto disponibile, ma non c'è quella sete, quella curiosità, quella passione.


Hai usato più volte la parola passione. Pensi che la musica – che si sia compositore, interprete, ascoltatore – abbia ancora a che vedere con questo termine? E poi vorrei chiederti anche: qual è il senso del parlare, oggi, di musica classica?


Da giovane c'è stato un periodo in cui usavo l'espressione musica di tradizione classica, parlando della mia attività di compositore. Naturalmente nessuno la capiva e forse era ancora peggio che dire musica classica. Comunque, si tratta in primo luogo di capirsi: basta entrare in un negozio di dischi per capire la necessità della definizione. Al di là di questo, cosa sia la musica classica chi la ascolta, la suona, la scrive lo sa benissimo. Ma è complicatissimo spiegarlo a chi non lo sa.

A questo proposito mi sembra emblematico il caso di Allevi. Lui è convinto di scrivere musica classica, chi ascolta musica classica sa che lui scrive musica new age per pianoforte, ma la chiama musica classica. Come si può spiegare la differenza fra Allevi e, che so, Schubert? Io penso che la chiave sia una, e sempre la stessa: la mancanza di stupore suscitato da una musica come quella di Allevi, e mi spiace insistere con lui: vale solo per capirsi. La sua musica è molto, molto piacevole, e ogni tanto l'ascolto. Ma è una musica in cui, stabilite nelle prime due battute e mezza le regole del gioco, tu sei in grado di intuire come il brano andrà avanti. Cosa che è successa, intendiamoci, molte volte nella storia – penso a tanta musica funzionale – ma non è certamente l'aspetto predominante nella musica classica. Anche perché altrimenti il lavoro dell'interprete non avrebbe senso.

Uso dunque questa definizione: quando sei di fronte a un brano che è scritto, che è destinato ad essere ascoltato con attenzione – tendenzialmente in una sala da concerto – e che tu non sei in grado di prevedere sino alla fine, è probabile che si tratti di musica classica. C'è poi una infinità di casi particolari, ma la definizione si attaglia, per esempio, anche a 4'33'' di Cage, che è certamente un pezzo di musica classica. Quello che fa la differenza non è dunque la ricchezza o la struttura, ma la modalità di relazione con l'oggetto musicale. Che non è da sentire ma da ascoltare: un ascolto attento. Il che non esclude che tu ti possa anche smarrire, perdere il filo; ma sei lì per ascoltare e non per leggere il programma di sala, o per mandare messaggi.


Questo ci porta al tema della qualità dell'ascolto. Mi sembra, e riprendo un ragionamento fatto tempo fa con Marcello Sorce Keller sulla musica occidentale, che l'ascolto della musica classica presupponga un certo grado di competenza: godiamo come ascoltatori nel ricevere ciò che ci aspettiamo ed anche dall’essere stupiti se ciò che arriva è differente da ciò che ci aspettiamo. Come vedi questo tema dal punto di osservazione di MITO?


Ci sono stati momenti nella storia in cui c'era un gioco di rilancio molto netto. Faccio il caso di Haydn a Londra, che viene invitato a scrivere Sinfonie per un pubblico esperto. Vuol dire che se lui cambia qualcosa nella struttura di una Sinfonia, il pubblico se ne accorge. C'è un gioco di aspettative intorno alla forma (esposizione-sviluppo-ripresa, due temi ecc…) del quale il compositore tiene ben conto.

Ben diverso è l'ascolto nel romanticismo. Ascoltiamo in tutt'altro modo, abbiamo imparato ad abbandonarci. Non sarebbe possibile altrimenti: pensa per esempio a una Sonata di Schumann: dopo due battute lui comincia a divagare, ad aprire parentesi. E' bellissimo, ma non puoi pensare di tenere sempre l'attenzione desta allo stesso modo lungo una intera partitura. E va bene così. Per fare un altro caso, nel periodo delle avanguardie di inizio '900 veniva richiesto un ascolto estremamente attento – pensa a una partitura di Boulez. Si credeva che l'ascoltatore potesse – magari dopo aver ascoltato una conferenza prima del concerto – decodificare strutture terribilmente complesse, e quel tipo di ascolto era richiesto, pena l'essere tagliati fuori dalla comprensione.

Oggi le cose sono molto più articolate. Nel corso di una serata sei invitato a confrontarti con un pezzo di Monteverdi, uno di Stravinski, e magari un altro appena scritto. E il bis è Schubert. Questo vuol dire che ti si richiedono tecniche di ascolto diverse. O almeno erano richieste quando quelle musiche erano composte. Possiamo chiamarle diverse modalità di fruizione. O anche, diverse tecniche di piacere…

In questo senso MITO è un luogo ideale. Ci sono melomani espertissimi e competentissimi, seduti a fianco di persone che ascoltano musica classica per la prima volta. E costruendo programmi che hanno una loro forza d'interesse nella specifica successione della playlist – per dirla in termini moderni – nei miei primi 2 anni di MITO ho cercato di far sì che entrambi i pubblici fossero soddisfatti. L'habitué trova un tasso di novità che lo interessa, per esempio un pezzo appena scritto insieme con musica di tradizione, oppure brani desueti insieme con brani molto noti; e però al contempo tengo ben alta l'attenzione ad avere musica che sia molto comunicativa. Musica che ho piacere nello scegliere e nell'ascoltare, perché i programmi che scelgo me li ascolto prima, da capo a fondo come se fossi in sala.


Sei stato nella commissione artistica di Europa Cantat e quindi hai avuto contatto con il mondo amatoriale. Com'è oggi la relazione fra questo mondo e quello professionale?


Ho avuto un lungo rapporto con Feniarco, e ho organizzato due festival Europa Cantat, lavorando per sei anni con colleghi di tutta Europa. Posso dire di avere scoperto il mondo corale, che pur facendo da tanti anni il compositore e il direttore artistico, non conoscevo. E quando dico mondo corale, intendo dire amatoriale. La forza, l'entusiasmo, la passione del mondo corale-amatoriale sono stati per me la scoperta artistica più bella degli ultimi anni. C'è qualcosa che da professionista non conosci, il fatto di lavorare per passione a qualcosa che ti travolge, ma ti richiede anche una tenacia, un'attenzione, un impegno non da poco.

Ho provato, in questi anni di Feniarco e di Europa Cantat, a stabilire dei ponti fra i due mondi. Mi sembrava assurdo, soprattutto, che i professionisti non potessero giovarsi di questo bacino di energia. E anche di bellezza. Ma le risposte del mondo professionale, devo dire, sono state piuttosto deludenti. Il coro amatoriale viene considerato un aspetto minore dell'esperienza musicale. Così come la banda rispetto all'orchestra. Senonché ci sono orchestre di fiati straordinarie, come ci sono orchestre – professionali – scadenti. E c'è una letteratura, per orchestra di fiati, di prima qualità: raramente nelle pagine per orchestra sinfonica contemporanee si trova la perizia strumentale, per fare un esempio, di Michael Daugherty in Rio Grande. E tuttavia da noi si pensa che, in quanto banda, si tratti di una sottocultura. In Germania, o nei paesi baltici, è tutt'altro. Il concetto stesso di amatorialità è diverso.

Certo, il coinvolgimento di compagini amatoriali in un festival “professionale” come MITO, dove vengono interpreti e orchestre di primo piano, comporta delle difficoltà specifiche. Per esempio, per un coro amatoriale è difficile stabilire un programma con molti mesi di anticipo. Tuttavia io non demordo e continuo a tentare di costruire ponti fra i due mondi. Penso per esempio alle opportunità per un compositore giovane, bravo: può trovare decine di cori disposti a fare musica nuova, che abitualmente la fanno, e invece finiscono col cantare solo musica di compositori “specializzati in ambito corale”, che fanno un po' gruppo a sé, e non escono da quel particolare ambito. Un po' come i chitarristi-compositori. Ma quando senti musica per chitarra di un compositore “puro”, è un'altra cosa. Lo stesso vale per la musica per coro: da una osmosi verrebbero vantaggi per entrambi i mondi. Ma a provarci non siamo in molti.

 

Gennaio 2018

 

                     facebook
>>torna alla home page
>>torna a "Interventi"

contatti: team@aasp.it