I quaderni della riforma/Strumentisti
Le risposte di
PAOLO BIRRO
Vicentino, nato nel 1962, Paolo
Birro dopo il diploma di pianoforte conseguito nel 1987 si dedica completamente
al linguaggio jazzistico. Ha suonato e registrato con alcuni fra i più
importanti jazzisti italiani e stranieri. Come leader ha realizzato numerosi
dischi in trio, duo e piano solo.
Ha insegnato ai Civici Corsi di Jazz a Milano, ai Seminari internazionali di
perfezionamento di Siena e dal 2003 occupa la cattedra di Jazz presso il
Conservatorio di Vicenza.
Molti fra i fautori della riforma consideravano
necessaria una migliore formazione musicale dello strumentista al di là dello
studio dello strumento, più di quanto fosse previsto dall’ordinamento del 1930.
I nuovi percorsi comprendono dunque armonia, analisi, storia, e la presenza di
Teoria della musica e di Esercitazioni corali anche nel periodo superiore. Qual
è la tua opinione in proposito?
Il
caso dell’insegnamento del Jazz nei conservatori ovviamente è particolare e si
differenzia per diverse ragioni dalle discipline “classiche” presenti fin
dall’inizio nell’ordinamento del 1930: ad esempio la specificità del linguaggio
jazzistico e della sua didattica, l’introduzione recente nell’istituzione, la
particolare situazione del corpo docente e la frequente disomogeneità nelle
caratteristiche degli studenti che aspirano a frequentare i corsi di jazz. Tutto
questo fa sì che sia anche diverso l’impatto del nuovo ordinamento
sull’indirizzo jazzistico rispetto agli altri. Nel nostro caso la situazione
esistente prima della riforma vedeva lo studio del Jazz limitato a un corso
triennale post-diploma: questo primo titolo, introdotto circa una ventina di
anni fa, se è servito ad abbattere un muro e a far entrare il Jazz
nell’istituzione del conservatorio, presentava però diverse carenze e
un’impostazione piuttosto vaga: l’unico riferimento era un programma di esame
finale che, prevedendo prove di diversa tipologia, imponeva di articolare
l’insegnamento oltre che sulla pratica strumentale anche sulla storia della
musica afroamericana, l’armonia, la scrittura, l’arrangiamento e l’analisi; il
numero esiguo di ore disponibili e il fatto che fosse comunque un unico docente
a occuparsi di tutto erano però fattori fortemente limitanti e che
inevitabilmente conducevano a una certa superficialità nella trattazione degli
argomenti. I nuovi piani di studio dei corsi accademici consentono nel caso del
Jazz di svolgere in modo più efficace questo programma. Nella mia esperienza di
docente presso il Conservatorio di Vicenza ho vissuto il passaggio graduale da
quel diploma di Jazz dell’ordinamento tradizionale ai nuovi corsi accademici
come un decisivo passo avanti nella direzione utile a impostare in modo serio la
studio della disciplina di cui mi occupo (che ha anche comportato un enorme
aumento dell’impegno di lavoro).
Il nuovo assetto didattico prevede che la
competenza dell’insegnamento dello strumento si articoli su più discipline. Per
esempio: Prassi esecutive e repertori (che è il vero e proprio insegnamento
dello strumento), Metodologia dell’insegnamento strumentale, Trattati e metodi,
Letteratura dello strumento, Fondamenti di storia e tecnologia dello strumento,
Tecniche di lettura estemporanea, Improvvisazione allo strumento.
Tutte queste discipline – o meglio quelle che ogni istituzione sceglierà – sono
di competenza dei docenti dello strumento “principale”. Tuttavia è prevedibile
che lo studente le studi sotto la guida di diversi docenti dello stesso
strumento.
Come vedi questa articolazione su più discipline della competenza strumentale?
E come vedi l’ipotesi che i tuoi studenti studino altri aspetti dello strumento
con altri colleghi docenti dello stesso strumento?
Il
musicista di jazz (almeno nella mia esperienza) è per formazione già portato a
una certa molteplicità di approcci allo studio dello strumento e penso sia
naturale che questa mentalità si ripercuota anche nel momento in cui insegna.
Personalmente ho sempre incoraggiato i miei studenti a confrontarsi
contemporaneamente con altri docenti: ritengo che se lo studente ha una
sufficiente capacità critica e i vari docenti riescono a evitare di dare
indicazioni conflittuali i vantaggi per tutti siano superiori agli svantaggi.
Questo argomento però mi costringe a sollevare un problema che riguarda la
carenza di organico dei docenti di Jazz nell’attuazione del nuovo ordinamento
per cui noi ci troviamo (almeno finora) nella situazione opposta: cioè spesso un
solo docente si deve non solo occupare di tutte le discipline inerenti al
proprio strumento ma anche di altre (armonia, analisi ecc.); l’impiego di
docenti esterni a contratto è una soluzione efficace dal punto di vista
didattico ma in genere molto onerosa per il budget degli istituti. In alcuni
casi l’alternativa è quella di ricorrere in varia misura a docenti interni di
indirizzo “classico” ma l’esito dipende molto dalle competenze specifiche e
dalla flessibilità del docente coinvolto.
Uno dei motivi di diffidenza da parte di non pochi
docenti di strumento verso il curricolo dell’alta formazione è il timore che lo
studio dello strumento possa perdere la centralità che ha nell’ordinamento del
1930.
Condividi questa proccupazione? Se sì, pensi che questo rischio possa essere
ridotto dalle singole istituzioni nella fase di definizione del proprio
curricolo locale?
Sì, parlando del curriculum
“classico” ritengo sia reale il pericolo di perdere uno standard nello studio
strumentale che comunque si era raggiunto nel vecchio ordinamento: seguendo nel
mio istituto la discussione che ha portato alla formulazione dei nuovi piani di
studio mi sembra che gli sforzi siano stati indirizzati a ridurre il più
possibile questo rischio.
Nel caso dell’indirizzo
jazzistico il problema deriva ancora una volta dalla carenza e “precarietà”
dell’organico (la maggior parte della cattedre di Jazz sono occupate da docenti
supplenti nominati in base alla graduatoria nazionale 143 o a graduatorie
d’istituto) per cui, soprattutto ora che nell’ordinamento del triennio sono
previsti i diplomi specifici dei vari strumenti, gli istituti si trovano in
difficoltà nell’erogare un numero adeguato di ore individuali di strumento.
La musica da camera assume
nel curricolo un ruolo che non vi aveva nell’ordinamento del 1930. Sia come
quantità, sia per la regolare verifica con esami.
Come giudichi questa innovazione dal punto di vista del docente di strumento (se
questo è il tuo caso) e da quello del docente d’insieme (se questo è il tuo
caso)? Potranno generarsi delle “contese territoriali”?
Per quanto riguarda il jazz, la sua versione della musica da camera, cioè la
musica d’insieme, è sempre stata considerata imprescindibile e per me non se ne
fa mai abbastanza: strumento e musica d’insieme nella formazione di un jazzista
sono attività parallele e complementari; in tutta la mia attività didattica,
fuori e dentro il conservatorio, mi sono sempre occupato di entrambe.
Pensi che le convenzioni fra Conservatori e Licei
per dar vita ai nuovi Licei musicali possano comportare un rischio di
“secondarizzazione” dei Conservatori, o portare a modificare in qualche modo lo
stato giuridico dei docenti?
Non sono in grado di esprimere un parere in proposito: comunque riguardo i Licei
una questione per noi di una certa importanza è il fatto che non si sa ancora se
vi verranno attivati strumenti a indirizzo jazzistico (e di conseguenza non si
sa nemmeno se i nuovi diplomi di primo livello daranno accesso al biennio 077
per l’insegnamento nei licei).
(marzo 2010) |