I quaderni della riforma/Storici
Le risposte di
MASSIMO VENUTI
Massimo Venuti è
Professore ordinario presso il Dipartimento delle Scienze storiche, critiche e
analitiche del Conservatorio “G. Verdi” di Milano. Ha studiato Filosofia,
Pianoforte e Composizione, e si è perfezionato alla Chigiana di Siena e al
Mozarteum di Salisburgo. Autore di diversi libri di carattere filosofico e
musicologico, presentati in RAI e alla Buchmesse di Francoforte, ha tenuto corsi
all'Università di S. Pietroburgo ed è stato chiamato a firmare la Carta
Intellettuale al Palazzo delle Nazioni Unite a Ginevra, dove ha tenuto una
relazione.
Critico musicale, è stato membro del Coordinamento nazionale dei Comitati per la
Riforma, in veste del quale ha collaborato alla VII Commissione cultura per la
riforma musicale in Italia.
Sergio Lattes - C’è
una polemica ricorrente a proposito della prevalenza, nella cultura accademica
italiana, della dimensione storica su ogni altra, in ogni ambito disciplinare.
Ovvero, estremizzando, della tendenza a ridurre ogni disciplina alla sua propria
storia. Anche nel nostro settore, per fare un esempio, il termine “musicologia”
ha stentato a farsi accettare in Italia, incontrando diffidenza nella cultura
d’ispirazione storicistica. E a tutt’oggi la musicologia italiana è spesso
considerata come quasi esclusivamente “storica”. Pensi che questa peculiarità
esista, e che sia effettivamente un limite?
Massimo Venuti -
Questo limite esiste sicuramente, e deriva dalla
fortissima influenza creata dalla originaria struttura di tutta la scuola
italiana, basata sull'impostazione storicistica hegeliana di cui Giovanni
Gentile è stato un emerito esponente. Questo modello, insieme all'impostazione
della scuola dei Gesuiti che Gentile ha preso ad esempio, spiega anche perché
nella scuola italiana la musica abbia avuto scarsissimo peso: questa materia non
era funzionale all'impostazione gesuita dell'educazione. La visione cronologica
e tendenzialmente progressiva verso il positivo è un'altra delle conseguenze.
Naturalmente bisogna tenere conto che la musicologia italiana, lato sensu,
è nata molto in ritardo rispetto a quelle, ad esempio, americana o tedesca, e la
visione letteraria, elegiaca o poetica, di stampo romantico, ha impedito fino a
una trentina d'anni fa un approccio tendenzialmente oggettivo e sistematico ai
problemi: leggete la prosa di uno scritto di musicologia fatto da un italiano,
diciamo fino a una quarantina d'anni fa, e a parte alcune eccezioni ve ne
renderete subito conto.
SL Quali sono a tuo avviso i problemi specifici che il processo di
riforma pone a Storia della musica intesa come disciplina?
MV Il processo di riforma, a regime, prevede che l'attuale esame di
Licenza venga conseguito in concomitanza all'esame di Stato, cioè a diciotto
anni, infatti nei Licei sperimentali annessi ai Conservatori questo già esiste:
ciò vuol dire che l'accesso al triennio di livello “universitario” prefigura già
da ora una conoscenza generale della storia della musica. Nelle cosiddette
griglie dei trienni la legge prevede un certo numero di crediti per l'area
musicologica, quindi sul piano teorico il legislatore ha dato libertà
d'intervento nell'ambito dell'autonomia delle varie istituzioni, e questo è
l'aspetto positivo. Quello negativo riguarda il fatto che il “riempimento” di
questi spazi è troppo limitato all' “approfondimento di...”, pensato come un
monografico ancora una volta di tipo storicistico, per esempio su un autore o su
una forma storica circoscritta temporalmente. Se ci sono le competenze, perché
non aprire l'orizzonte dello studente verso l'estetica musicale, la semiografia,
la psicologia della musica, la sociologia, tutte afferenti al campo disciplinare
musicologico? Queste cose non le dovrebbero decidere i consigli di corso di
strumento, né quello accademico - spesso prevenuti nei confronti di questi
argomenti perché “tolgono tempo” allo strumento -, ma il consiglio di Storia o
di Musicologia: a questi, in relazione alle competenze interne, la decisione di
formulare i corsi per ampliare l'offerta formativa, naturalmente in
coordinamento con gli altri consigli di corso.
SL Il ruolo e il peso che l’ordinamento del 1930 attribuisce alla
storia della musica oggi ci sembrano insufficienti e inadeguati nella
formulazione dei contenuti. Tuttavia furono a quel tempo il frutto di una
“battaglia culturale” vinta. Infatti l’esame, con le sue famose tesi, fu
stabilito come un catenaccio senza il quale non si potesse arrivare al
compimento degli studi di qualunque strumento.
Per ottenere questo, si dovettero
superare le forti resistenze di chi opponeva l’argomento che non si potesse
negare il compimento degli studi musicali a uno strumentista di grande talento
ma di scarsa alfabetizzazione. Come dire: se è bravo, non importa che non sappia
la storia della musica.
Esiste anche oggi questo modo di pensare? E con quali argomenti si può
affrontarlo?
MV Di pensare sì, come ho già fatto capire dalla risposta precedente. Sul
piano tecnico, rispetto all'ordinamento del '30, la cosa oggi è diluita perché
nel piano di studi dello studente, di fatto, qualsiasi esame è un catenaccio. Ma
è sempre la questione culturale il punto. La mentalità dell'insegnante di
strumento è spesso improntata, nei Conservatori italiani, alla tendenza di
isolare il proprio studente limitando altro genere di studi, affinché la
concentrazione del suo pupillo vada solo nella direzione prescritta, perché “è
lui che poi deve suonare”. E' vero. Ma non esiste un importante artista che non
sia anche un uomo di notevolissima cultura, perché senza l'apertura
intellettuale data dalla diversità degli stimoli non esistono grandi
interpretazioni. Per non parlare dei ragazzi che faranno tutt'altro, perché la
conoscenza di diverse materie permette spesso loro di “riciclarsi” in altri
àmbiti. Un'Accademia deve specializzare, ma deve dare anche le basi conoscitive
per fare affrontare la complessità della vita ai propri studenti. Incuriosisce
poi che sovente quei docenti di strumento ammettono l'importanza di tali corsi
“teorici” se sono loro stessi a tenerli: è l'idea dello strumentista
onnisciente, che da un lato ha complessi di superiorità nei confronti dei
musicologi, dall'altro di inferiorità, perché vuole lui stesso svolgerne le
funzioni, se proprio non può eliminarli del tutto. Questa mentalità incoraggia
la mentalità storicistica: “di insegnare Storia della musica, o anche un
approfondimento che riguarda il mio strumento, sono capace anch'io”.
SL Ritieni che l’attuale corso ordinamentale di storia della musica
debba svolgersi, in tutto o in parte, nel triennio (e quindi in tutto o nella
stessa parte essere “abbonato” a chi abbia già conseguito la licenza prima di
entrare nel triennio), oppure pensi che gli studi di storia della musica, nel
triennio, debbano essere “altri”, e quindi che l’attuale corso debba costituire
un debito per lo studente privo di licenza (salvo che dimostri una competenza
equivalente in sede di esame di ammissione)?
E in questo secondo caso, pensi che
la storia della musica nel triennio debba essere più approfonditamente
sistematica, oppure monografica, oppure invece riguardare altri campi
disciplinari dello stesso settore, come per esempio “storia delle forme e dei
repertori musicali”?
MV Se, a regime, lo studente che accede al Triennio dovrà già possedere
le conoscenze equivalenti all'attuale licenza di Storia, in itinere, come
siamo oggi, la materia deve essere trattata in modo flessibile. Tuttavia
dobbiamo sempre operare in vista di quell'obiettivo. Chi non ha ancora la
licenza, o non ha conseguito un titolo equipollente, naturalmente avrà a debito
il corso di Storia “generalista”, la cui durata dipenderà dal colloquio di
ammissione. Gli effettivi corsi del triennio, assegnati alla Storia o alla
Musicologia, dovrebbero andare alle discipline decise da quel Consiglio di
corso, viste le competenze interne: quindi di carattere sistematico, come
elencavo prima, oppure anche storico. In questo ambito rientra pienamente quello
di “Storia delle forme e dei repertori” che è, per legge, affidata agli storici.
Non perché bravi strumentisti non sarebbero in grado di insegnarla ma, per così
dire, motivi ermeneutici che sarebbe lungo ora spiegare. Naturalmente, in
mancanza di storici, è un corso che può essere ben affidato a uno strumentista.
SL Fra le molte lacune che la nostra formazione musicale registra
rispetto a quelle dei paesi di più forte tradizione musicale, si nota la
mancanza di una educazione all’ascolto che metta lo studente, gradatamente, in
una condizione di familiarità con i linguaggi/stili musicali del passato, e in
condizione riconoscerne all’ascolto i tratti caratteristici e distintivi. Si
tratta di un approccio molto diffuso all’estero, e sistematicamente coltivato a
più livelli. A questa lacuna nell’insegnamento si aggiunge spesso la scarsa
abitudine degli studenti, anche avanzati, a seguire la vita musicale e
concertistica. Ne risulta una conoscenza della musica asfittica, ridotta quasi
totalmente a quanto viene direttamente conosciuto in sede di studio dello
strumento; e all’ascolto di dischi, spesso anche questo limitato alla
letteratura del proprio strumento.
Pensi che Storia della musica, intesa come disciplina d’insegnamento, possa o
debba farsi carico di un approccio sistematico all’educazione all’ascolto? E che
questo possa integrare sostanzialmente il tradizionale approccio
verbale/scritto?
MV Già adesso nei corsi di base si sta diffondendo la dicitura di Storia
ed educazione all'ascolto che sta sostituendo quella di Storia ed estetica. In
effetti, nei corsi di Storia l'ascolto è già ora fondamentale, e se uno studente
ha conoscenza scolastica di sapori diversi lo deve in gran parte proprio a
questi. Se però tu intendi un effettivo approccio “sistematico”, allora bisogna
mettere mano ai programmi d'esame, per esempio con prove pratiche di ascolto e
di commento: capire il periodo, l'organico, persino il genere e, dirò di più,
anche oltre la musica classica. Tutto ciò dovrebbe essere fatto prima
dell'accesso al triennio. Io sarei d'accordo - previo il fatto che se non c'è
una prova d'esame, queste rischiano di diventare parole vuote, perché se non c'è
coercizione c'è qui solo un flatus vocis-, ma il problema è: quante ore
verranno dedicate, nel quinquennio della secondaria musicale, a questa materia?
Dai primi chiari di luna che si sentono, non si riuscirebbe neanche a condurre
la Storia normale, come si è fatto finora. Un approccio sistematico all'ascolto
dovrebbe prevede un esame, e un adeguato tempo didattico.
La
non tradizione all'ascolto italiana, del resto, ha origini antiche: la nostra
Chiesa prevedeva la schola cantorum, i fedeli zitti, e il risultato è che
nessuno oggi canta in Chiesa (a prescindere dai canti orribili che si sentono);
in quelle riformate tutti cantano, e già da piccoli là si imparano i Corali come
fossero canti naturali. Ma anche la nostra scuola ne è uno specchio: il docente
pensa al concertista, all'esecutore pubblico, perché lo percepisce come un segno
della propria notorietà didattica. Ma solo pochissimi arrivano. Sarebbe meglio
capire prima chi non potrà arrivare a quei livelli, e lasciargli più spazio per
svilupparsi e ampliare gli orizzonti: la musica anche per vedersi la sera, per
suonare e cantare insieme per divertirsi in una dimensione più naturale, avendo
l'umiltà di sapere anche abbandonare la nevrotica del timbro azzurro chopiniano.
SL Chi deve insegnare le “storie” più vicine allo strumento? Dai
decreti 90/09 (settori disciplinari) e 124/09 (ordinamento dei corsi, e
corrispondenze fra settori disciplinari e classi di concorso) si ricavano
conseguenze talvolta contraddittorie, o di non facile interpretazione. Per
esempio:
- “Storia della musica
elettroacustica” (CODM/05) è attribuito ai titolari di Musica elettronica, e non
di storia.
- “Storia del
jazz, delle musiche improvvisate e audiotattili” (CODM/06) è attribuito ai
titolari di Jazz e non di storia.
- Del settore “Storia della musica” (CODM/04) – attribuito ai docenti di Storia
della musica – fanno parte alcune discipline collegate agli strumenti, come
“Storia delle forme e dei repertori musicali”, “Storia della teoria e della
trattatistica musicale”. Ma allo stesso tempo di tutti i settori degli strumenti
(CODI/01-22) – attribuiti ai docenti di strumento – fanno parte,
rispettivamente, “Letteratura dello strumento” e “Trattati e metodi”, e inoltre
“Fondamenti di storia e tecnologia dello strumento”.
MV Non essendo il legislatore non ho conoscenze certe a riguardo, quindi
posso solo proporre una esegesi che rimane, però, ipotetica.
I primi due punti riguardano la musica elettronica e il jazz, le quali sono
materie del nuovo ordinamento che non fanno parte delle “vecchie” o sperimentate
classi di concorso. Voglio dire che è sembrato più logico affidare tali corsi di
storia ai docenti che si sono formati in quello specifico settore, invece che
riferirsi ai docenti “classici” di Storia della musica. Il che mi sembra
personalmente ragionevole. Tale logica di “estensione”, secondo la quale a una
classe di concorso corrispondono molti campi paradigmatici di competenza (in
breve, più materie) informa tutto l'allegato, e serve a utilizzare lo stesso
corpo docente in maggiori possibilità di offerta formativa. Questi due casi mi
sembra rientrino in questa logica.
Diverso è il caso dell'ambito “classico”. Qui la discriminante è che le materie
di carattere storico, teorico e di relativa trattatistica, che ineriscono alla
prospettiva estetica, vengano affidate agli storici-musicologi, la theoria;
quelle di carattere pratico, didattico, e trattatistico-didattico agli
strumentisti, la praxis .
Venendo agli esempi di CODM/04: “Storia delle forme e repertori” riguarda la
storia ed estetica di autori, di generi, magari sviluppati nel tempo, oppure di
composizioni. Il corso può essere monografico, oppure più generalista. “Storia
della teoria e trattatistica” inerisce invece ai caratteri più generali della
musica nei vari periodi, alla trattatistica di tutta la teoria musicale del
tempo, ai suoi riflessi nell'estetica e nella cultura in senso, per così dire,
più contestualizzato. Naturalmente questo lavoro può toccare trattati di tipo
eminentemente strumentale, ma come esemplificazione di un discorso che deve
avere altre finalità.
D'altro lato, invece, abbiamo (CODI/01-22) la praxis della metodologia e
della didattica. “Letteratura dello strumento” riguarda infatti la letteratura,
cioè la pagina scritta in partitura. Posto che abbia un senso fare un corso
apposta, il docente fa conoscere in modo sinottico o cronologico allo studente -
facendolo suonare - diversi esempi tratti dalla letteratura strumentale,
evidenziandone le caratteristiche e i problemi sul piano tecnico: la finalità
non è dunque quella dell'esecuzione finale e perfezionata (more concerto),
ma di conoscenza della pratica letteraria, della lettura a vista, e di tutti i
problemi e caratteristiche ad essa collegata. A questo inerisce perfettamente
“Trattati e metodi” che riguarda i trattati didattici, i metodi pratici e di
insegnamento, l'interpretazione semiografica (che è diversa dalla semiologia
della musica che le declaratorie affidano correttamente alla musicologia) e dei
problemi di traduzione-interpretazione dei segni.
Più ambiguo è “Fondamenti di storia e tecnologia dello strumento”, soprattutto
perché coincide con “Organologia” che è appannaggio degli “storici”.
Quest'ultima è più generica, la prima più specifica: essendo queste, pure, nuove
classi, non si può stabilire a priori se uno strumentista o un musicologo abbia
necessariamente competenze maggiori l'uno rispetto all'altro. I trattati di
organologia li hanno scritti gli storici, ma gli strumentisti hanno certamente
conoscenze maggiori sul proprio strumento degli storici (e tali conoscenze
derivano, magari, proprio da trattati di organologia). Al momento, pertanto,
pare che nihil obstat ai pieni diritti dell'uno e dell'altro.
(febbraio 2010) |