I quaderni della riforma/Storici
Le risposte di
DANIELA MARGONI TORTORA
Daniela
Margoni Tortora insegna storia ed estetica della musica presso il Conservatorio
S. Pietro a Majella di Napoli e storia della musica contemporanea presso la
facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università di Roma “Sapienza”; è
responsabile dell’Archivio storico della musica contemporanea del MLAC (Museo
Laboratorio di Arte Contemporanea) del medesimo ateneo. Ha al suo attivo studi e
ricerche sull’opera del primo Ottocento, sulla drammaturgia musicale del
Novecento, sulle neoavanguardie del secondo dopoguerra.
Daniela Margoni Tortora ha
preferito rispondere senza interruzioni alle domande. Riportiamo quindi qui
sotto tutte le domande, e successivamente il suo testo [ndr]
1) C’è
una polemica ricorrente a proposito della prevalenza, nella cultura accademica
italiana, della dimensione storica su ogni altra, in ogni ambito disciplinare.
Ovvero, estremizzando, della tendenza a ridurre ogni disciplina alla sua propria
storia. Anche nel nostro settore, per fare un esempio, il termine “musicologia”
ha stentato a farsi accettare in Italia, incontrando diffidenza nella cultura
d’ispirazione storicistica. E a tutt’oggi la musicologia italiana è spesso
considerata come quasi esclusivamente “storica”. Pensi che questa peculiarità
esista, e che sia effettivamente un limite?
2) Quali sono a tuo avviso i problemi specifici che il processo di
riforma pone a Storia della musica intesa come disciplina?
3) Il ruolo e il peso che l’ordinamento del 1930 attribuisce alla
storia della musica oggi ci sembrano insufficienti e inadeguati nella
formulazione dei contenuti. Tuttavia furono a quel tempo il frutto di una
“battaglia culturale” vinta. Infatti l’esame, con le sue famose tesi, fu
stabilito come un catenaccio senza il quale non si potesse arrivare al
compimento degli studi di qualunque strumento.
Per ottenere questo, si dovettero
superare le forti resistenze di chi opponeva l’argomento che non si potesse
negare il compimento degli studi musicali a uno strumentista di grande talento
ma di scarsa alfabetizzazione. Come dire: se è bravo, non importa che non sappia
la storia della musica.
Esiste anche oggi questo modo di pensare? E con quali argomenti si può
affrontarlo?
4)
Ritieni che l’attuale corso ordinamentale di storia della musica
debba svolgersi, in tutto o in parte, nel triennio (e quindi in tutto o nella
stessa parte essere “abbonato” a chi abbia già conseguito la licenza prima di
entrare nel triennio), oppure pensi che gli studi di storia della musica, nel
triennio, debbano essere “altri”, e quindi che l’attuale corso debba costituire
un debito per lo studente privo di licenza (salvo che dimostri una competenza
equivalente in sede di esame di ammissione)?
E in questo secondo caso, pensi che
la storia della musica nel triennio debba essere più approfonditamente
sistematica, oppure monografica, oppure invece riguardare altri campi
disciplinari dello stesso settore, come per esempio “storia delle forme e dei
repertori musicali”?
5) Fra le molte lacune che la nostra formazione musicale registra
rispetto a quelle dei paesi di più forte tradizione musicale, si nota la
mancanza di una educazione all’ascolto che metta lo studente, gradatamente, in
una condizione di familiarità con i linguaggi/stili musicali del passato, e in
condizione di riconoscerne all’ascolto i tratti caratteristici e distintivi. Si
tratta di un approccio molto diffuso all’estero, e progressivamente coltivato
fino a livelli sofisticati.
Pensi che Storia della musica,
intesa come disciplina d’insegnamento, possa o debba farsi carico di un tale
approccio, integrando sostanzialmente il tradizionale approccio verbale/scritto?
E saresti d’accordo su un’applicazione sistematica di questo tipo di didattica,
per livelli progressivi di abilità?
6) Chi deve insegnare le “storie” più vicine allo strumento? Dai
decreti 90/09 (settori disciplinari) e 124/09 (ordinamento dei corsi, e
corrispondenze fra settori disciplinari e classi di concorso) si ricavano
conseguenze talvolta contraddittorie, o di non facile interpretazione.
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Tutte le discipline artistiche intrattengono con la storia un rapporto fecondo e
produttivo: il pensiero storico le innerva e le motiva anche nel loro divenire,
cosicché noi che umilmente ci applichiamo a registrarne i passi nel corso del
tempo, ci ritroviamo a fare i conti con la storia, in piena autonomia di
giudizio, tuttavia, e nella consapevolezza dell’esistenza di una relazione
dialettica aperta tra le cose dell’arte e il divenire della storia dell’umanità.
Tale consapevolezza storica costituisce – lo sappiamo - l’assillo culturale più
ingombrante dell’Occidente europeo; ciononostante, non sono del parere che la
musicologia italiana abbia a soffrire di questa ‘malattia’ più che altrove e,
tanto meno, che essa costituisca la sua sola peculiarità, poiché nel corso degli
ultimi trent’anni altri approcci e altre metodiche di studio e di ricerca si
sono affermati (si pensi alla musicologia sistematica, a quella propriamente
analitica, a quella interculturale o trasversale che attraversa i confini a
volte assai labili esistenti tra le tradizioni orali e le tradizioni scritte),
generando un flusso di idee positivo per la crescita della disciplina stessa.
Permane tuttavia piuttosto conflittuale il rapporto tra il sapere (e
l’organizzazione del) in ambito accademico e la gestione dello stesso
all’interno dei conservatori, in quanto scuole d’arte, sia pure ormai
riconosciuti centri di alta cultura e affiliati al MIUR: conflittuale, io credo,
per ragioni inerenti alla spartizione dei poteri attraverso la precisa
distinzione dei compiti (le università, garanti del sapere umanistico,
provvedono o dovrebbero provvedere alla formazione delle teste pensanti; i
conservatori a sfornare musicisti).
La storia della musica conta una presenza tutto sommato recente nell’ambito
accademico italiano (all’incirca una sessantina d’anni); ha tuttavia assistito
nel corso degli anni, soprattutto a partire dalla fine degli anni settanta, a
una crescita costante della propria portata sia in termini quantitativi (quasi
tutti gli atenei italiani dispongono oggi giorno di cattedre, istituti e
dipartimenti includenti detta disciplina), sia – ed è ciò che conta di più – in
termini qualitativi, con un imponente picco evidenziatosi nell’ultimo scorcio
del secolo passato, nei decenni contigui ottanta e novanta. Tutto ciò non ha
generato tuttavia forme effettive di scambio e di dialogo tra l’accademia (leggi
università) e i conservatori: pur parlando degli stessi manufatti, pur lavorando
sui medesimi territori e, spesso con gli stessi strumenti bibliografici, si è
finito per adottare ‘lingue’ differenti e per ribadire la non trasferibilità dei
contenuti per via delle priorità, che naturalmente permangono differenti.
La mia esperienza mi induce a negare costantemente questo presunto dato di
fatto: avendo il privilegio di insegnare di qua e di là, posso permettermi –
seppure in forme marginali e precarie – di sperimentare la possibilità del
transito di temi, ricerche, campi di indagine, tirocinii e verifiche dall’uno
all’altro versante, mediante l’impiego di metodiche similari, seppure gestite a
livelli giocoforza differenti. Sono convinta che esista una musicologia
‘militante’, una musicologia in atto, che si aggancia all’esperienza viva del
far musica, che esibisce se stessa, le proprie metodiche, i propri traguardi e,
perché no, anche i propri fallimenti, capace di esercitare una grande presa
sugli allievi, a prescindere dalla direzione degli studi, e di costituire un
itinerario grandemente formativo e per il musicista e per lo studioso di
discipline appartenenti al comparto umanistico.
Più in particolare, per ciò che attiene ai conservatori, l’insegnamento della
storia della musica dovrebbe a mio giudizio costituire un dato permanente nel
percorso formativo del musicista (sul fatto che i programmi del ’30 siano un
dato archeologico, ancora perdurante tuttavia nei nostri istituti, e che
l’alfabetizzazione del musicista, dell’interprete del compositore del direttore
d’orchestra, costituisca una conquista ormai irrinunciabile, non intendo
soffermarmi e reputo scontata qualsiasi osservazione al riguardo). Penso dunque
che detto insegnamento vada modulato nel corso del tempo – un tempo lungo e
parallelo all’apprendimento del sapere musicale vero e proprio per far sì che la
preparazione risulti tutt’altro che astratta e libresca, e proceda in sintonia
con l’avanzare delle competenze.
La mia esperienza quotidiana mi induce a guardare con riserva alle presunte
novità introdotte dalla riforma (mi rendo pure conto che i miei ormai quasi
vent’anni di insegnamento in Campania, e a Napoli in particolare, finiscono per
imporre un’inclinazione regionalistica al mio discorso): per quanto riguarda la
storia della musica, all’interno del Conservatorio di Napoli, le lezioni vengono
impartite senza alcuna distinzione di sorta agli allievi dei corsi ordinamentali
e a quelli del triennio (soltanto agli iscritti ai bienni di specializzazione,
spesso - ahimè! - sprovvisti di un qualsivoglia titolo di studio musicale,
offriamo briciole di corsi, veri e propri surrogati di sole 15 ore). Insomma,
insisto: sono del parere che il vecchio biennio per conseguire la licenza di
storia della musica debba precedere il triennio del nuovo ordinamento,
all’interno del quale debbano essere collocati corsi di approfondimento inerenti
all’esperienza contemporanea e qui, a scanso di equivoci, intendo relativi
all’esperienza della musica d’arte del nostro tempo,vale a dire a ciò che in
essa vive (o sopravvive) del passato e a ciò che in essa vi compare della più
recente produzione.
Sono del parere che la storia della musica non possa essere insegnata a
prescindere dall’ascolto della musica (è banale, ma sarebbe come pretendere di
insegnare Dante, a prescindere dalla Divina Commedia e Giotto, a
prescindere dagli affreschi della basilica di S. Francesco ad Assisi). Ma che
tipo di ascolto? Non ho alcuna dottrina in proposito da riferire e molte
perplessità da esprimere, anche perché bisognerebbe interrogarsi in primis
sulle ‘dotazioni di bordo’ dei nostri istituti: come ascoltare? dove
ascoltare? quando ascoltare? di quali materiali disporre? Non mi interessa
affatto il conseguimento di “livelli progressivi di abilità” in questo ambito o,
meglio, non credo che questo rientri nei compiti del docente di storia ed
estetica della musica, per il quale l’ascolto costituisce un mezzo, uno
strumento didattico, sia pure indispensabile.
Circa l’ultimo quesito sulle
ambiguità del dettato legislativo che assegna compiti simili o similari a
docenti di materie differenti, credo che sia giusto preservare la pluralità dei
saperi, senza ostacolare la possibile sovrapposizione degli insegnamenti sui
medesimi territori, naturalmente allo scopo di evitare la perdita di una visione
organica e realmente molteplice delle cose in favore di una visione miope ed
esclusivamente specialistica delle varie problematiche occorrenti.
(marzo 2010) |