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  Formazione professionalizzante e formazione amatoriale

Conversazione con Andrea Melis, direttore della Civica Scuola di musica "Claudio Abbado" di Milano



Come vedi la questione dell’amatorialità musicale.

Vorrei ricordare che Gramsci sosteneva che più è solida la base di una trasmissione di conoscenze, più è possibile che si sviluppi una specializzazione di qualità. Come si sa, il riordino dell’istruzione musicale è partito, per un insieme di ragioni, dal livello accademico. Sotto, c’è un arcipelago estremamente variegato. Ora, la dimensione amatoriale della musica e quella professionale sono due strade diverse, ma i fondamenti sono gli stessi. La scelta professionale si compie nel tempo: all’inizio del percorso i musicisti sono per così dire tutti amatori. E d’altro canto la professione musicale non può esistere se non c’è nella società una presenza di amatori che s’interessano alla musica: come consumatori di musica, come fruitori di concerti, come lettori, come acquirenti di spartiti e di dischi, e quant’altro. Tutto questo definisce l’importanza e la rilevanza della questione “amatori”, ai fini della stessa esistenza di un mondo. Amatorialità e professionismo sono le facce di una stessa medaglia.

Quindi tu metti in relazione la questione dell’amatorialità con quella dell’educazione musicale di base e di massa.

Totalmente. Anche assumendo solo il punto di vista dell’istituzione specialistica, l’educazione musicale è il presupposto per una selezione – lasciamelo dire – non classista dei talenti per la professione: oggi l’accesso alla musica “colta” è appannaggio quasi esclusivo dei ceti benestanti e culturalmente provveduti. Lo Stato non può scaricare sulle famiglie e sulle loro possibilità economiche l’accesso a un patrimonio culturale. Anche qui le esigenze della formazione amatoriale e della formazione musicale tout court coincidono.


Questo però non coincide con il tradizionale modello italiano, che tende a selezionare i talenti “per la professione” il più presto possibile – nonostante la selezione all’ingresso dei Conservatori non possa riguardare che un numero molto piccolo di aspiranti, e quindi finisca con l’essere inefficiente. E anche se il prezzo che si paga è un’altissima mortalità scolastica nei primi anni di studio.

E anche la disaffezione. I risultati sono sotto i nostri occhi. Lo studente che ha magari buone qualità ma non così eccelse da aspirare al professionismo finisce col rinunciare allo studio, perché frustrato dal mancato riconoscimento della dignità e della specificità della condizione di amatore.
Con questo non intendo far carico della questione per intero ai Conservatori. Voglio dire però che se nel sistema, visto nel suo insieme, chi ha una passione musicale non trova una collocazione e una possibilità di coltivarla, questo è un problema serio per tutti. Ne ha parlato bene Carlo Delfrati nella sua Storia critica dell'insegnamento della musica in Italia, dove diceva che a un certo punto della storia si è sviluppata una “cultura” di disprezzo del dilettantismo che in realtà era svalutazione della dimensione amatoriale della musica. Questo è un vero e proprio danno. Altrove non è così. E non è inutile ricordare come nella storia della musica i dilettanti di alta qualità abbiano avuto un ruolo cruciale nello sviluppo della musica da camera, dico della sua letteratura.

In breve, quali differenze sostanziali vedi fra noi e altri Paesi?
 
Faccio il caso della Francia. Il sistema è verticistico, ci sono solo due Conservatori superiori e lì sì che si fa “quel tipo” di selezione: ma viene fatta appunto a quel livello, non all’inizio del percorso scolastico. Prima, c’è una struttura didattica che consente un accesso molto più capillare alla formazione musicale. E non parlo della Germania. Vorrei dire, metaforicamente, c’è un tessuto molto più vascolarizzato. Da noi, oltre le scuole ad indirizzo, oltre alcune buone cose nelle elementari, il panorama è frammentario, non organico.


Le nostre istituzioni Afam hanno difeso strenuamente la persistenza al loro interno dell’intero percorso formativo. La convinzione è che questa sia la condizione per garantire, all’ingresso del percorso accademico, un livello di perizia strumentistica che non comporti una dequalificazione dello stesso percorso accademico.

Ma hanno dovuto cedere: i corsi preaccademici sono diventati tre anni propedeutici. E anche se diventassero cinque non coprirebbero la fascia iniziale. Il problema è dunque di sistema: della diffusione, dell’apertura e della strutturazione di una base d’accesso alla formazione musicale.

Come istituto, avete un rapporto con le scuole di musica, civiche e non, del territorio?

Stiamo coltivando in questo senso una rete. Abbiamo anche promosso - con Fondazione Cariplo e con il Comitato per l’insegnamento pratico della musica – un’
indagine sull’offerta di educazione musicale nel territorio milanese per la fascia 8-13 anni di età. Il nostro disegno è il dialogo con il contesto formativo circostante, comprendente sia le scuole ad indirizzo che scuole private, e che ha anche delle sue eccellenze. Un ambito che spesso opera in condizioni difficili, in periferia, in condizione d’isolamento, e va aiutato e sostenuto all’interno di una rete. Vorremmo condividere dei ragionamenti sui diversi profili in ingresso e in uscita, eventualmente anche sui programmi, se vorranno. Vorremmo creare un coordinamento a livello anche lombardo, che senza obbligare nessuno offra una condivisione di programmi, di riflessioni didattiche, di corsi o seminari di formazione dei docenti. E vorrei ricordare anche le possibilità offerte dal cosiddetto welfare aziendale, sol che si sappia intercettarne le esigenze e offrire delle soluzioni organizzate.

Anche perché, penso, ogni istituzione di alta formazione ha delle responsabilità verso il tessuto in cui opera: una responsabilità di missione. Non puoi limitarti a dare delle certificazioni – più o meno valide, più o meno costose – per l’accesso al livello accademico. Devi dare il tuo contributo perché l’ambito formativo musicale si strutturi. E questo lo fai in molti modi: verso le scuole non musicali, portando musica, lezioni concerto, sensibilizzando, facendo open days, creando insomma dei punti di raccordo con queste realtà. Ma rispetto alle scuole musicali devi muoverti in una logica che non sia di concorrenza (le istituzioni Afam operano anche nella fascia pre-accademica) ma di cura del “benessere” del comparto formativo nel suo insieme. Se questo fiorisce, anche tu come istituzione accademica non potrai che trarne vantaggio.


Questo approccio potrebbe essere la “medicina giusta”per curare la resistenza delle istituzioni Afam a condividere la formazione pre-accademica con le altre agenzie formative (“solo noi sappiamo impostare correttamente i principianti”), mettendo in discussione anche le tradizioni didattiche che sottendono questo atteggiamento.


Appunto. Collaborare con le altre agenzie, aiutarle ad evolversi è la risposta corretta per una istituzione Afam. E non è detto che non ne riceva essa stessa dei saperi, degli stimoli ad evolversi a sua volta.


Tornando più vicino al tema degli amatori: che cosa trovano nelle istituzioni formative? Anche il mondo amatoriale esprime una domanda di formazione, di consiglio, di miglioramento tecnico.


Poco. Il mondo amatoriale, per fortuna, è in crescita anche da noi, e tende ad auto-organizzare questa crescita. Esprime una domanda di formazione, che è poi una domanda di
lifelong learning. Non mi sembra che trovi una sponda robusta nell’istruzione musicale formale.

Ritorna la questione del disinteresse, o forse si potrebbe dire la discriminazione dell’amatorialità.

Se è così, laddove è così, mi sembra un paradigma sbagliato, e anche fallimentare. Questa enfatizzazione ossessiva della professionalità e dell’eccellenza in un certo senso ha il fiato corto. Paradossalmente si potrebbe dire
[e lo sosteneva già Orefice all’inizio del ‘900, NdR] che lo studente eccellente è quello che meno ha bisogno dell’istituzione. Il vero problema è la massa critica, che tu devi accompagnare nei modi migliori. La deriva iperspecialistica mi sembra nefasta: per la musica, per il contesto, alla fine per gli stessi professionisti.

Quale in particolare il ruolo delle scuole civiche? Hanno tutte la stessa bipartizione in un canale amatoriale e un canale propedeutico all’accesso all’Afam?

In linea di massima il modello prevalente è questo: un canale amatoriale e, quando emergono del attitudini particolari, si cerca di istradare l’allievo verso una formazione più orientata all’accesso all’Afam. Così è, tradizionalmente, anche al nostro interno. In particolare la nostra filiera è molto lunga, cominciamo dall’età di 3 anni con i corsi propedeutici, poi i corsi di base, poi i preaccademici e così via.


E qual è il momento in cui si comincia a porre la questione dell’orientamento verso lo studio professionale? Non riproducete in questo modo lo stesso modello del Conservatorio che poco prima abbiamo criticato?

Alla prima domanda: grosso modo, fra la fine dei corsi di base (che durano 3 anni) e l’inizio dei preaccademici, che da noi durano 5 anni. Quindi, come età, intorno ai tredici. Anche se, come sempre, ci sono talenti precoci che arrivano alle soglie del livello accademico molto prima degli altri.
Quanto alla seconda: noi abbiamo una funzione storica rispetto al territorio milanese, alla quale intendiamo restare fedeli. Non c’è contraddizione fra il continuare a coltivare la filiera lunga di cui parlavo prima, e intessere la rete sul territorio di cui ho accennato. E’ evidente che, pur continuando a fare come sempre la scuola di base, né da sola la Civica (ma neppure il Conservatorio, o i Conservatori) possono coprire le necessità di un territorio vasto come quello milanese, tantomeno quello metropolitano o quello lombardo. Se veramente vogliamo ampiare la base, e diffondere maggiormente la formazione musicale, dobbiamo preoccuparci che questo tipo di formazione – che noi storicamente facciamo e continuiamo a fare – lo possano fare anche altri. Appunto, creando una rete. Come Civica organizzeremo, con l’aiuto di Fondazione Cariplo, un portale dedicato all’informazione sull’offerta formativa musicale del territorio. Un portale cui partecipino le scuole con un loro spazio, mettendo a disposizione di tutti la conoscenza delle opportunità formative presenti sul territorio. E magari attivando così anche delle possibilità di welfare aziendale, come accennavo prima.

Per finire, un argomento obbligato. Quando parliamo di amatori, pensiamo in genere a chi suona o canta la musica classica, o colta, o d’arte che dir si voglia. Ma per ognuno di loro ci sono dieci, cento altre persone che suonano le “altre” musiche, quelle che ascolta la maggioranza delle persone: voglio dire, le infinite declinazioni che vengono riassunte nel termine pop/rock, ora presente anche nei Conservatori. Sono anch’essi amatori? Come gioca la loro presenza rispetto ai ragionamenti che abbiamo fatto finora?

Primo. Se nei Conservatori si attivano i corsi Pop/Rock vuol dire che anche rispetto a quell’ambito musicale si evolve una prassi didattica più strutturata, più fondata culturalmente, e questo è certamente positivo. Però ne nasce subito un discorso di responsabilità: quella di diffondere anche in quell’ambito una cultura della qualità della formazione, e della metodologia della formazione. Che devono essere altrettanto e con la stessa qualità presenti in tutti i comparti, e rispetto a tutti i linguaggi.

Secondo: certo che esistono anche lì gli amatori. Come istituzione devo farmi carico che esistono, che esprimono delle esigenze culturali, che devono trovare risposte e collocazione. In termini innanzitutto di offerta didattica: se esiste un livello accademico del Jazz e ora anche del Pop/Rock vuol dire che, prima
, esiste una massa di studenti di questi strumenti e di questi linguaggi che devono poter incontrare delle opportunità formative ben strutturate. Anche per questi ambiti vale quel che abbiamo detto poc’anzi: esiste una responsabilità delle istituzioni accademiche. Nel momento in cui attivi il livelli accademico devi preoccuparti di far sì che si diffonda una cultura formativa e musicale che investa anche gli strati sottostanti della piramide. Di cui quindi possano beneficiare anche gli amatori. Perchè anche questi non dovrebbero poter incontrare opportunità di imparare a suonare meglio, per suonare assieme ad altri, per ampliare le proprie prospettive e così via?
 

Dunque istituire il preaccademico del Jazz e del Pop/Rock?

Magari non istituirlo, ma favorirne lo sviluppo e la qualità all’esterno dell’istituzione accademica. Se hai reclutato dei docenti validi per il tuo livello accademico, hai la possibilità di favorire la crescita o il miglioramento del tessuto che viene prima. Anche qui: formazione dei formatori, seminari, masterclass, guide all’ascolto. Il tutto rivolto a chi opera nei segmenti sottostanti: perchè le istituzioni di alta formazione non potrebbero essere più “porose”, più aperte verso il basso, sotto questa angolazione? Per fare qualche esempio, una masterclass potrebbe avere un momento più divulgativo aperto anche agli amatori. Potrebbero organizzarsi (e penso si troverebbero anche i finanziamenti) corsi di formazione dei docenti che insegnano questi linguaggi nelle scuole di ogni genere che sono diffuse sul territorio, e che a loro volta formano amatori. Come per gli altri linguaggi, è un discorso di responsabilità culturale dell’istituzione accademica.

Questa responsabilità coinvolge anche il valore del pluralismo linguistico e culturale. Se la formazione di base in ambito Pop/Rock sta nelle scuole private, le abbandoniamo a se stesse o cerchiamo di offrire loro degli strumenti che favoriscano il pluralismo dei linguaggi? Tu studi il tuo Pop/Rock ma io ti dò l’occasione di ascoltare la Musica per archi percussione e celesta di Bartòk o l’Uccello di fuoco di Stravinski. Oppure la musica di altre culture. In altre parole, favorisco il pluralismo contrastando la tendenza alla estrema vettorialità della formazione, che peraltro si avverte chiaramente anche nell’impostazione dei percorsi accademici.
Questo impegno verso il mondo sottostante dovrebbe essere primario per le istituzioni. Solo loro, se lo vogliono, possono spendersi in questa direzione. E del resto sarebbe nel loro stesso interesse: ne risulterebbe un migliore livello della popolazione entrante nei livelli accademici. Quale interesse può avere un Conservatorio ad aprire i corsi accademici di Pop/Rock – come di ogni altro ambito – senza prendersi cura di ciò che c’è prima, e quindi dei livelli di accesso?

Ottobre 2019



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