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Quaderni

Pop/Rock un anno dopo
Un quaderno di conversazioni

 

Roberto Neulichedl

con Sergio Lattes



Roberto Neulichedl è dal 1990 docente di Pedagogia musicale, dal 1999 presso il Conservatorio "A. Vivaldi" di Alessandria.
Ha presentato proprie relazioni in molti convegni e seminari nazionali e pubblicato diversi saggi contenenti analisi relativamente alla formazione dei docenti di discipline musicali in Italia.
Il suo approccio allo studio delle tematiche psicopedagogiche e didattiche è di stampo sistemico e fenomenologico.
[curriculum vitae:
https://www.conservatoriovivaldi.it/wp-content/uploads/neulichedl-cv2018.pdf]

 

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Come vedi, in linea generale, l'entrata del Pop-Rock nei Conservatori?

Sono cresciuto a Progressive rock e musica classica, non ho quindi alcuna preclusione di principio. In paesi come la Germania esiste da sempre una pluralità d’indirizzi formativi, tra i quali il “rock”. Però nei fatti vedo una deriva inquietante. In passato, per accedere al corso di Jazz occorreva un certo livello – mi pare il 7° o l'8° anno nel caso dei corsi decennali – del corrispondente strumento classico. Oggi chi vuole studiare Jazz o Pop accede direttamente al Triennio, con “sconti” enormi sulle competenze anteriori. Gli studenti che arrivano al Biennio di Didattica dai Trienni di Pop o di Jazz hanno lacune imponenti, e non parlo di quelle sul fronte psicopedagogico, che sarebbero più facilmente recuperabili, ma di quelle musicali di base, teoriche, armoniche. C'è un drammatico abbassamento del livello richiesto per i corsi accademici.


Il nuovo corso di Pop/Rock ha in comune con gli altri percorsi solo alcuni crediti di Teoria-ritmica-percezione, e di Storia della musica. Considerato quanto hai detto prima, si tratterà verosimilmente di un livello molto elementare delle due discipline – qualcosa di analogo alle vecchie “materie complementari”. Questo vuol dire che uno studente potrà conseguire il diploma di primo livello – e presto anche di secondo – avendo conosciuto praticamente solo la musica Pop e Rock. Da qui una serie di interrogativi, di cui il primo è: quella che chiamiamo formazione classica è in qualche modo fondativa della competenza musicale, o è da considerare un genere fra gli altri?

Non è da considerarsi un genere fra gli altri. Beninteso, l'approccio cosiddetto “classico” (direi, meglio, “accademico”) nei Conservatori ha dei ritardi, sul piano della scelta dei repertori e su quello metodologico. Si dice musica classica, ma si trascura quasi completamente il '900, che ha rivoluzionato i linguaggi. Si è completamente abbandonata la dimensione improvvisativa, che fra l'altro sarebbe indispensabile nella formazione dei docenti.

Tuttavia la formazione accademica ha una valenza trasversale a tutti i generi, indipendentemente dalla singola declinazione. Per esempio il rapporto fra oralità e scrittura è un dato storico che ha a che vedere con i processi di trasmissione del sapere. In tal senso l’esperienza musicale cosiddetta “audiotattile” non può essere considerata modalità esclusiva del jazz. L'approccio dev'essere aperto a tutte le forme di espressione, ma la conoscenza di quelle complesse è imprescindibile. Non si può, in altri termini, “lasciar fuori” il patrimonio storico dell'area eurocolta. Così come è essenziale conoscere il patrimonio delle “musiche altre”. Penso al fondamentale apporto dato dall’etnomusicologia alla riflessione anche in campo didattico.


Un altro interrogativo riguarda la formazione dei docenti della scuola generale. Gli studenti potranno trovarsi davanti un docente di discipline musicali che conosca soltanto il Pop/Rock, o soltanto il Jazz?

Se il docente ha superato il concorso, la risposta teoricamente è sì. La normativa attuale apre l'accesso al concorso a qualsiasi titolo di II livello purché accompagnato dai 24 crediti nelle aree psico/antropo/pedagogiche e delle metodologie didattiche. Il diploma in Didattica della musica non è dunque obbligatorio. E per insegnare strumento nelle SMIM (le Scuole Medie a Indirizzo Musicale), o nei Licei musicali, è richiesto un qualunque diploma di II livello, purché con il possesso di un titolo di I livello nello “strumento specifico”. (E qui, per inciso, si apre un'altra diatriba: qual è lo “strumento specifico”? Per esempio nel caso della chitarra, quella classica? quella Jazz? quella Pop?).


Mi sembra che questo discorso si allarghi a tutti i diplomati di Conservatorio.

Infatti. Il problema di fondo, e non riguarda solo il diploma Pop/Rock, è quello della qualificazione del docente in quanto tale. C'è una confusione generale fra quanto dichiarato negli obiettivi formativi dei corsi di diploma, e i reali sbocchi occupazionali. Una percentuale altissima dei diplomati di Conservatorio, in un modo o nell'altro, va a insegnare. Il sistema dovrebbe assicurare uno “zoccolo duro” di competenze, comune a tutti, molto più ampio.

Il vero problema però è che troppi vedono nell'insegnamento una professione residuale: se non riesci a fare l'artista farai l'insegnante. Perciò pensa a studiare lo strumento, e lascia perdere il resto. Questa mentalità continua a prevalere nei Conservatori.


C'è chi sostiene che la formazione dei docenti di musica debba avvenire esclusivamente nell'Università.

Ovviamente non sono d'accordo. Anche perché la formazione psicopedagogica e didattica nelle università risulta quasi sempre generica e astratta, avulsa da una concreta declinazione “disciplinare”. Ciò è dovuto a una cultura formativa che, in Italia, tende a mantenere rigorosamente separate le competenze didattiche da quelle disciplinari. I Dipartimenti di Didattica della Musica rappresentano in tal senso un unicum ma non ancora pienamente valorizzato. Perciò bisogna difendersi dalla possibilità, purtroppo reale, che dai Conservatori escano persone la cui formazione e la cui cultura sono inadeguate alle esigenze dell'insegnamento. A questo proposito, ricordo il caso delle indicazioni nazionali per il liceo musicale, alla cui stesura ho partecipato. Tanti insegnanti le hanno criticate: e questo proprio perché sono concepite in una logica più trasversale, più interdisciplinare di quella seguita tradizionalmente nei Conservatori.


Hai ricordato prima l'importanza della dimensione improvvisativa. Il corso di Pop/Rock, insieme con quello di Jazz, la riconduce nelle aule dei Conservatori.

La dimensione improvvisativa – storicamente presente tra le prassi esecutive della “musica d’arte” - è stata abbandonata, e in più è spesso oggetto di un vero e proprio pregiudizio (“non devi suonare a orecchio”, “bisogna seguire esclusivamente il testo” ecc). Però ho tenuto corsi di alfabetizzazione per la compensazione dei debiti, appunto per i jazzisti, e ho conosciuto anche il pregiudizio opposto: quello di chi è contrario all'apprendimento della scrittura perché potrebbe inibire o danneggiare la capacità improvvisativa. Come se per comporre poesie non fosse utile o necessario saper leggere quelle di altri. Ritengo invece che la competenza nella lettura e nella scrittura sia fondamentale. E più in generale conoscere le strutture tonali (oltre a quelle modali, a-tonali o di ogni altro sistema musicale), conoscere la storia dell'evoluzione del pensiero musicale è imprescindibile.


Esiste il rischio che alcune istituzioni si sbilancino in modo abnorme in direzione del Pop o del Jazz. In altri termini, il rischio che lo sviluppo dell'offerta formativa sia determinato passivamente dalla “domanda”, quindi da un criterio diciamo così mercantile.

Credo che il problema esista, e che questo non avvenga solo per “fare cassa” assecondando passivamente la domanda. Esiste anche la finalità di dimostrare al Miur percentuali più elevate di studenti dei livelli accademici, appunto in forza del fatto che Jazz e Pop/Rock hanno soltanto il livello accademico.

Ma il rafforzamento della componente accademica delle istituzioni potrebbe avvenire in ben altro modo. Francamente non vedo che senso abbia senso sbilanciarsi verso il Jazz o verso il Pop quando noi, come Paese, abbiamo (avremmo, dovrei dire) un enorme patrimonio da valorizzare. Penso a quanto potrebbero fare i Conservatori, appunto a livello accademico, impegnando i propri docenti in progetti sulla musica antica, sul nostro Settecento, sul melodramma e così via, che avrebbero un'attrattiva anche a livello internazionale - sempre che ne siano capaci, naturalmente. Il rischio che corriamo, invece, è che si crei una sorta di bolla speculativa sul Jazz e sul Pop, e che il prodotto di questa bolla alla fine si riversi ancora una volta nell'insegnamento. E così torniamo alla questione dell'insegnamento come professione residuale, e della scuola come ammortizzatore sociale...


marzo 2019

 

 

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