Pop/Rock un anno dopo
Un quaderno di conversazioni
Oreste Bossini
con Sergio Lattes
Oreste Bossini, giornalista, musicografo e critico musicale, conduttore
radiofonico, conduce la trasmissione Radiotre Suite per la Rai.
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E’ partito il secondo anno del corso accademico di Pop/Rock. Agli inizi la
discussione all’interno del mondo conservatoriale fu molto vivace. Ci furono
molte voci critiche, e non tutte riconducibili a una visione “passatista”. Ci
furono echi positivi da parte della stampa, di solito accusata di poco interesse
verso i Conservatori, o di parlarne male. Vorremmo ragionarne un po’ ora, a
distanza di tempo.
Premetto che ho conosciuto il Conservatorio
solo in veste di studente, ne ho un’idea abbastanza generica. Per quel che so
tutte le scuole di Performing Arts, specie nel mondo anglosassone, si occupano
di Popular Music, quella italiana non è una novità. Casomai sarei invece
perplesso sul nome Pop/Rock, e sull’apparentamento con il Jazz che appare nei
documenti ministeriali.
Quanto alle reazioni interne, un atteggiamento
preconcetto di ostracismo verso questa novità sarebbe sterile, specie se fondato
su una presunta graduatoria di valori. Portare la discussione sul piano estetico,
sul valore di un tipo di musica rispetto a un altro, rischia di degenerare in
una polemica astratta e datata, crea solo confusione.
Detto questo, tutto sta a vedere come si fanno
le cose. Di scuole private per questi generi ce ne sono, e anche di buone. E
alcune hanno il riconoscimento come istituzioni Afam. Quanto infine agli echi di
stampa, come si usa dire fa notizia solo se l’uomo morde il cane. Che i
Conservatori svolgano regolarmente il loro compito, magari anche bene, non è una
notizia.
Allora chiediamoci che cosa deve distinguere
l’intervento del Conservatorio, su questo tema, rispetto alle altre scuole.
In linea generale, direi che debba prevalere su
ogni altra considerazione un principio: l’istruzione pubblica ha il compito di
mettere il sapere a disposizione di tutti, dev’essere un diritto anche per chi
non ha mezzi.
Oggi però i Conservatori costano…
Comunque meno del mercato. E nell’istruzione
pubblica ci sono borse di studio, facilitazioni, opportunità varie. Ma la di là
di questo, l’istruzione pubblica dev’essere svincolata da ogni commistione con
interessi commerciali - come quelli discografici per esempio; deve mettere a
disposizione il sapere nel modo più libero. Per questo motivo, penso che si
debba controllare molto severamente che gli studenti non siano in alcun modo
forza lavoro a costo zero, con la scusa dell’esperienza lavorativa. Temo che nel
mondo della musica commerciale questo tipo di commistioni possano essere molto
più a portata di mano, grazie alla televisione, alla struttura stessa
dell’industria musicale.
Da parte di alcuni c’è il sospetto che i
Conservatori aprano questi corsi “moderni” per assecondare la domanda, in
definitiva per fare soldi. Ma questo conduce a una questione generale, che si
pone anche per l’Università: in che misura le istituzioni debbano
autodeterminare l’indirizzo del proprio sviluppo, in base a criteri propri, e in
che misura debbano lasciarlo determinare dalla domanda e in definitiva da
ragioni mercantili.
Penso che l’istruzione pubblica abbia come
primo compito quello di tutelare il mantenimento di una tradizione culturale, di
un patrimonio. Lo dice la Costituzione, all’art. 9: la Repubblica tutela il
paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Trasferito nel
nostro caso, l’istituzione deve garantire la sopravvivenza di forme artistiche
non commerciali che non ne avrebbero altrimenti la possibilità – in altre
parole, quelle forme artistiche che costano più di quanto incassano. Per fare
l’esempio più chiaro: chi vuole studiare il clavicordo deve frequentare il
Conservatorio, l’unico posto dove può trovarlo. Il Pop/Rock lo trova anche
altrove.
Dunque sarebbe meglio non farlo?
Non dico questo. Se c’è lo spazio, se ci sono
le risorse per aprire ad altri “mondi”, ben venga. Ma non a discapito
dell’interesse pubblico primario. Per esempio non mi sembrerebbe accettabile che
venissero chiuse delle classi di strumenti “tradizionali” per aprire cattedre di
Pop/Rock, oppure che risorse significative dei bilanci venissero stornate dalle
destinazioni usuali, come per esempio l’acquisto di strumenti, a favore delle
strutture e della logistica necessarie per fare il Pop e il Rock. Che sono molte
e costose. E qui si apre il discorso cui accennavo all’inizio: dipende da
come si fa, l’apertura. I Conservatori per la maggior parte hanno sede in
edifici storici, ex conventi, ex monasteri. Per fare seriamente i generi della
Popular Music occorrono spazi, strutture, apparecchiature, insonorizzazioni. Ci
sono le risorse, per tutto questo?
Contrariamente a quanto avviene per i corsi
“tradizionali”, per il Pop/Rock – come del resto per il Jazz – i Conservatori
non hanno sentito il bisogno di istituire dei corsi pre-accademici, oggi
definiti propedeutici. C’è un esame di ammissione, ma non si è avvertita la
necessità di un percorso pluriennale in precedenza.
Intanto terrei ben distinti Jazz e Pop/Rock.
Nel Jazz la virtuosità strumentale ha un ruolo non meno importante che nella
musica classica, e quindi l’accesso al corso accademico dovrebbe essere
condizionato al possesso di un livello già elevato di abilità strumentale. Il
Pop/Rock è tutt’altra cosa, è un mondo in qualche modo autoreferenziale, in cui
l’abilità fisica/virtuosistica ha un ruolo molto minore. La chitarra elettrica
si può imparare in pochi mesi, e contano invece molto altri fattori come la
qualità degli strumenti, degli arrangiamenti, dei mixaggi, dell’amplificazione,
della consolle che si usa. Gli strumenti che si usano nel Pop/Rock – uso sempre
l’etichetta ministeriale – non hanno una lunga tradizione, non hanno un
patrimonio storico da condividere. Semmai solo il canto, visto che la voce
bisogna comunque saperla usare, richiede veramente una tecnica, forse lì avrebbe
senso una formazione precedente il livello accademico.
Ha senso dare configurazione accademica al
Pop/Rock, è possibile sottoporlo a quella “standardizzazione” che è
indispensabile per poter definire dei repertori, dei piani di studio, dei
criteri di valutazione in qualche modo cristallizzati? Non è per così dire
troppo legato al presente, a un’evoluzione in tempo reale?
Forse, come dicevo prima, per il canto il
discorso potrebbe essere diverso. Ma per il resto mi sembra abbastanza un
controsenso – a parte i legittimi interessi dei docenti a conseguire uno status
accademico. In realtà il Pop/Rock è un po’ come la moda. Se ne può insegnare la
storia, si possono insegnare certe tecniche – valutare i tessuti e simili – ma
la creatività, quella che si rinnova continuamente, non può essere ridotta a
formule che s’imparino e si applichino.
Proviamo a tirare le somme…
In sintesi, il principio è la tutela del
patrimonio. Non perché la musica del passato “vale di più” rispetto a quella di
oggi, ma perché quello è il compito dello Stato. E’ lo stesso discorso dei
teatri d’Opera: lo Stato spende 4/500 milioni all’anno (che pure sono la metà di
quello che spendono la Francia o la Germania) per spettacoli che sono fruiti da
una minima percentuale della popolazione. Questo avviene non per servire il
divertimento di una élite, ma perché si tratta di una parte integrante della
nostra cultura, della nostra identità, che deve essere preservata. E pensare che,
al di là dei ricorrenti proclami sulla vocazione artistica del Paese, la
maggioranza dei politici ritiene che sia uno spreco….
Gennaio
2019
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