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Quaderni

Pop/Rock un anno dopo
Un quaderno di conversazioni

 

Oreste Bossini

con Sergio Lattes



Oreste Bossini, giornalista, musicografo e critico musicale, conduttore radiofonico, conduce la trasmissione Radiotre Suite per la Rai.

****************


E’ partito il secondo anno del corso accademico di Pop/Rock. Agli inizi la discussione all’interno del mondo conservatoriale fu molto vivace. Ci furono molte voci critiche, e non tutte riconducibili a una visione “passatista”. Ci furono echi positivi da parte della stampa, di solito accusata di poco interesse verso i Conservatori, o di parlarne male. Vorremmo ragionarne un po’ ora, a distanza di tempo.

Premetto che ho conosciuto il Conservatorio solo in veste di studente, ne ho un’idea abbastanza generica. Per quel che so tutte le scuole di Performing Arts, specie nel mondo anglosassone, si occupano di Popular Music, quella italiana non è una novità. Casomai sarei invece perplesso sul nome Pop/Rock, e sull’apparentamento con il Jazz che appare nei documenti ministeriali.

Quanto alle reazioni interne, un atteggiamento preconcetto di ostracismo verso questa novità sarebbe sterile, specie se fondato su una presunta graduatoria di valori. Portare la discussione sul piano estetico, sul valore di un tipo di musica rispetto a un altro, rischia di degenerare in una polemica astratta e datata, crea solo confusione.

Detto questo, tutto sta a vedere come si fanno le cose. Di scuole private per questi generi ce ne sono, e anche di buone. E alcune hanno il riconoscimento come istituzioni Afam. Quanto infine agli echi di stampa, come si usa dire fa notizia solo se l’uomo morde il cane. Che i Conservatori svolgano regolarmente il loro compito, magari anche bene, non è una notizia.


Allora chiediamoci che cosa deve distinguere l’intervento del Conservatorio, su questo tema, rispetto alle altre scuole.

In linea generale, direi che debba prevalere su ogni altra considerazione un principio: l’istruzione pubblica ha il compito di mettere il sapere a disposizione di tutti, dev’essere un diritto anche per chi non ha mezzi.


Oggi però i Conservatori costano…

Comunque meno del mercato. E nell’istruzione pubblica ci sono borse di studio, facilitazioni, opportunità varie. Ma la di là di questo, l’istruzione pubblica dev’essere svincolata da ogni commistione con interessi commerciali - come quelli discografici per esempio; deve mettere a disposizione il sapere nel modo più libero. Per questo motivo, penso che si debba controllare molto severamente che gli studenti non siano in alcun modo forza lavoro a costo zero, con la scusa dell’esperienza lavorativa. Temo che nel mondo della musica commerciale questo tipo di commistioni possano essere molto più a portata di mano, grazie alla televisione, alla struttura stessa dell’industria musicale.


Da parte di alcuni c’è il sospetto che i Conservatori aprano questi corsi “moderni” per assecondare la domanda, in definitiva per fare soldi. Ma questo conduce a una questione generale, che si pone anche per l’Università: in che misura le istituzioni debbano autodeterminare l’indirizzo del proprio sviluppo, in base a criteri propri, e in che misura debbano lasciarlo determinare dalla domanda e in definitiva da ragioni mercantili.

Penso che l’istruzione pubblica abbia come primo compito quello di tutelare il mantenimento di una tradizione culturale, di un patrimonio. Lo dice la Costituzione, all’art. 9: la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Trasferito nel nostro caso, l’istituzione deve garantire la sopravvivenza di forme artistiche non commerciali che non ne avrebbero altrimenti la possibilità – in altre parole, quelle forme artistiche che costano più di quanto incassano. Per fare l’esempio più chiaro: chi vuole studiare il clavicordo deve frequentare il Conservatorio, l’unico posto dove può trovarlo. Il Pop/Rock lo trova anche altrove.


Dunque sarebbe meglio non farlo?

Non dico questo. Se c’è lo spazio, se ci sono le risorse per aprire ad altri “mondi”, ben venga. Ma non a discapito dell’interesse pubblico primario. Per esempio non mi sembrerebbe accettabile che venissero chiuse delle classi di strumenti “tradizionali” per aprire cattedre di Pop/Rock, oppure che risorse significative dei bilanci venissero stornate dalle destinazioni usuali, come per esempio l’acquisto di strumenti, a favore delle strutture e della logistica necessarie per fare il Pop e il Rock. Che sono molte e costose. E qui si apre il discorso cui accennavo all’inizio: dipende da come si fa, l’apertura. I Conservatori per la maggior parte hanno sede in edifici storici, ex conventi, ex monasteri. Per fare seriamente i generi della Popular Music occorrono spazi, strutture, apparecchiature, insonorizzazioni. Ci sono le risorse, per tutto questo?


Contrariamente a quanto avviene per i corsi “tradizionali”, per il Pop/Rock – come del resto per il Jazz – i Conservatori non hanno sentito il bisogno di istituire dei corsi pre-accademici, oggi definiti propedeutici. C’è un esame di ammissione, ma non si è avvertita la necessità di un percorso pluriennale in precedenza.

Intanto terrei ben distinti Jazz e Pop/Rock. Nel Jazz la virtuosità strumentale ha un ruolo non meno importante che nella musica classica, e quindi l’accesso al corso accademico dovrebbe essere condizionato al possesso di un livello già elevato di abilità strumentale. Il Pop/Rock è tutt’altra cosa, è un mondo in qualche modo autoreferenziale, in cui l’abilità fisica/virtuosistica ha un ruolo molto minore. La chitarra elettrica si può imparare in pochi mesi, e contano invece molto altri fattori come la qualità degli strumenti, degli arrangiamenti, dei mixaggi, dell’amplificazione, della consolle che si usa. Gli strumenti che si usano nel Pop/Rock – uso sempre l’etichetta ministeriale – non hanno una lunga tradizione, non hanno un patrimonio storico da condividere. Semmai solo il canto, visto che la voce bisogna comunque saperla usare, richiede veramente una tecnica, forse lì avrebbe senso una formazione precedente il livello accademico.


Ha senso dare configurazione accademica al Pop/Rock, è possibile sottoporlo a quella “standardizzazione” che è indispensabile per poter definire dei repertori, dei piani di studio, dei criteri di valutazione in qualche modo cristallizzati? Non è per così dire troppo legato al presente, a un’evoluzione in tempo reale?

Forse, come dicevo prima, per il canto il discorso potrebbe essere diverso. Ma per il resto mi sembra abbastanza un controsenso – a parte i legittimi interessi dei docenti a conseguire uno status accademico. In realtà il Pop/Rock è un po’ come la moda. Se ne può insegnare la storia, si possono insegnare certe tecniche – valutare i tessuti e simili – ma la creatività, quella che si rinnova continuamente, non può essere ridotta a formule che s’imparino e si applichino.


Proviamo a tirare le somme…

In sintesi, il principio è la tutela del patrimonio. Non perché la musica del passato “vale di più” rispetto a quella di oggi, ma perché quello è il compito dello Stato. E’ lo stesso discorso dei teatri d’Opera: lo Stato spende 4/500 milioni all’anno (che pure sono la metà di quello che spendono la Francia o la Germania) per spettacoli che sono fruiti da una minima percentuale della popolazione. Questo avviene non per servire il divertimento di una élite, ma perché si tratta di una parte integrante della nostra cultura, della nostra identità, che deve essere preservata. E pensare che, al di là dei ricorrenti proclami sulla vocazione artistica del Paese, la maggioranza dei politici ritiene che sia uno spreco….

Gennaio 2019

 

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